Eventi Martedì 29 dicembre “Il trionfo della morte” al Teatro Musco di Catania
«Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno». È sul XXXIII Canto dell’Inferno, tra i più tragici della Divina Commedia, che s’incentrerà il terzo appuntamento del ciclo “#fatti non foste a viver come bruti…”, organizzato e promosso in sinergia tra il Teatro Stabile di Catania e il Disum-Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania. Un vertice di poesia, assolutamente da non perdere, che vedrà la partecipazione di un grande attore come Mariano Rigillo e un esperto italianista quale Antonio Sichera: lettura e commento insieme, per rinnovare nella città etnea la secolare lectura Dantis.
“Il trionfo della morte” è il tema dell’incontro, fissato per martedì 29 dicembre al Teatro Musco alle ore 17.30. A coordinare il denso pomeriggio culturale sarà, come di consueto, il direttore del TSC Giuseppe Dipasquale, il quale ha concepito l’intero ciclo legando di volta in volta uno specifico spettacolo in cartellone con un canto della Commedia. Non a caso il ciclo di lecturae Dantis e la stagione programmata al Verga hanno lo stesso titolo: appunto “#fatti non foste a viver come bruti…”, hastag seguitissimo sui social sotto entrambi i profili.
Protagonista del canto prescelto è la forza espressiva di due dannati per “tradimento”: il disperato conte Ugolino e il frate Alberigo, punito già da vivo. Entrambi saranno reificati dalla voce del magnetico Mariano Rigillo, il celeberrimo interprete partenopeo in scena alla sala Verga, dal 28 dicembre al 3 gennaio, nel ruolo del titolo di Agamenone, la tragedia che apre la trilogia dell’Orestea. Da qui l’articolata riflessione su un tema come “il trionfo della morte”: evidenti sono infatti le affinità, se non le corrispondenze, tra la rovina della casa d’Atreo – insanguinata dall’uxoricidio e dal matricidio – e l’orrore della tragedia descritta da Dante negli ultimi atti del girone infernale.
A fornire occasioni analitiche interverrà la sapienza critica del professore Antonino Sichera, docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea al Disum. A lui è assegnato il compito dell’esegesi di quegli endecasillabi che chiudono la Prima Cantica dantesca, divisi quasi matematicamente in due momenti, separati stilisticamente dalle due invettive che Dante invia a «Pisa, vituperio de le genti» e, in chiusura, alla Città della Lanterna, «Ahi Genovesi, uomini diversi».
Rigillo – che ritorna a Catania dopo il grande successo ottenuto in tournée sui più importanti palcoscenici italiani con “Erano tutti miei figli”, per la regia di Dipasquale – saprà scuotere gli animi del pubblico con una lettura appassionata e appassionante di un canto straziante e penoso, dall’assoluta potenza drammatica: disumana è, infatti, l’esperienza del conte che, imprigionato da diversi mesi nella Torre della Muda a Pisa, vede morire di fame i suoi figli a uno a uno. Ugolino chiude con il verso su citato che, forse più di ogni altro nella Commedia, dà la misura effettiva dei limiti, della pochezza e della miseria della condizione umana.
Proprio la vicenda del conte ha mosso intere generazioni di dantisti, soprattutto in riferimento a quell’accusa di antropofagia, espressa in maniera ambigua da Dante stesso nel verso capitale «Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno»: molti critici, infatti, si sono chiesti se proprio quell’endecasillabo indicasse l’effettiva, quanto terribile, estrema scelta di un uomo senza scampo. Illuminante, a proposito, è lo scrittore argentino Jorge Luis Borges: in un saggio del 2001, alla domanda se Ugolino abbia «mangiato le carni dei suoi figli», risponde «Dante ha voluto non che lo pensassimo, ma che lo sospettassimo. L’incertezza è parte del suo disegno».
Interessante in quest’ottica sarà scoprire quale livello interpretativo verrà fornito dall’italianista Sichera: se più vicino alla critica desanctisiana, che nega decisamente ogni ipotesi di antropofagia e sottolinea il carattere di Ugolino come «uomo offeso in sé e nei suoi figli», o a quella del Marchese, che evidenzia invece come il rapporto tra Ugolino e i figli fosse un «viluppo quasi animalesco» e non esclude quindi l’interpretazione più crudele.