Formazione e ricerca Il magistrato palermitano, sostituto procuratore della Repubblica alla Dda di Caltanissetta dal ’92 al ’99 e pubblico ministero della Dda di Palermo dal ’99, oggi all'Università di Catania per l'incontro "Mafia, economia e corruzione" ha esortato la platea a «non voltare la faccia dall'altro lato, perché la lotta alla mafia deve essere di tutti. Informatevi, ragionate, siate consapevoli e lottate per la verità, per la legalità e per la giustizia»
«L’appello che rivolgo ai giovani è di non essere indifferenti alla mafia e alla sua penetrazione nel sistema economico, politico e amministrativo dello Stato perché è costata la vita a magistrati e ad uomini dello Stato. Non si deve voltare la faccia dall’altro lato perché la lotta alla mafia deve essere di tutti e per questo invito voi giovani ad informarvi, a ragionare, ad essere consapevoli e a lottare per la verità, per la legalità e per la giustizia perché solo così si può sconfiggere la mafia e la mentalità mafiosa e soprattutto garantire a voi ed alle prossime generazioni un futuro».
Con queste parole, stamattina, nella sala conferenze del Polo didattico “Gravina” del dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Catania, il magistrato Nino Di Matteo ha concluso, tra gli applausi degli studenti catanesi, l’incontro sul tema “Mafia, economia e corruzione”.
In precedenza il magistrato – alla presenza del rettore Giacomo Pignataro, del direttore del dipartimento, Giuseppe Barone, dell’avvocato Antonio Ingroia, del presidente del Movimento Agende rosse, Salvatore Borsellino, e del direttore di Antimafia 2000, Giorgio Bongiovanni – aveva evidenziato gli “scopi fondamentali” di Cosa nostra «sempre più interessata a condizionare e controllare la pubblica amministrazione e la politica per inserirsi nel sistema economico grazie anche al fatto che ad oggi non tutte le istituzioni nella componente politica, istituzionale, giudiziaria e amministrativa hanno reciso i rapporti con la mafia. E non si tratta di una semplice sottovalutazione di un fenomeno, ma di un’adesione culturale al metodo mafioso. Dobbiamo comprendere che Cosa nostra oggi è più attenta alla gestione del denaro pubblico, anche dei fondi europei, destinato alla pubblica amministrazione grazie all’ingresso della mafia nei salotti buoni grazie a professionisti, medici, imprenditori, politici e burocrati».
Il sostituto procuratore della Repubblica alla Dda di Caltanissetta dal ’92 al ’99 e pubblico ministero della Dda di Palermo dal ’99 si è anche soffermato sul sistema corruttivo «che vede sullo stesso piano la famiglia mafiosa e l’imprenditore, quest’ultimo prima coattato, che agiscono insieme per condizionare il mercato per interessi comuni. La lotta alla mafia e alla corruzione non sono aspetti distinti e separati o diversi come vogliono far credere, bensì sono due facce della stessa medaglia, della stessa condotta criminale» ha aggiunto Di Matteo, che ha indagato sulle stragi dei magistrati Rocco Chinnici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e delle loro scorte, e sull’omicidio del giudice Antonino Saetta.
Il pm ha posto l’attenzione anche «sulla politica italiana che ad oggi non ha emanato norme utili per combattere la collusione della mafia con altri sistemi, visto che su 60 mila detenuti solo poche decine sono in carcere per reati di corruzione contro la pubblica amministrazione. E non certo perché l’Italia sia immune alla corruzione, ma solo perché il sistema corruttivo rimane impunito grazie alla prescrizione del reato, che di fatto rappresenta la sconfitta dello Stato.E’ anche vero che per il definitivo salto di qualità alla lotta alla mafia e alla rescissione dei rapporti con l’esterno – ha aggiunto Di Matteo – occorre che la politica si riappropri del proprio ruolo, coinvolgendo e non attaccando la magistratura che spesso è lasciata sola nel contrastare la criminalità organizzata».
Un lungo discorso, quello di Di Matteo, introdotto dal rettore Pignataro, il quale, nel ringraziare «la magistratura per il lavoro svolto per cambiare il volto della Sicilia«, ha invitato i giovani «ad un maggiore senso civico ed educazione alla legalità per far vivere i valori della democrazia e della libertà». Sulla stessa linea anche il direttore del dipartimento, Giuseppe Barone, ed il direttore di Antimafia 2000, Giorgio Bongiovanni.
«La mafia non è solo quella che spara, ma è quella che ordina di sparare, grazie ad uno Stato che negli ultimi 850 anni non è mai riuscita a sconfiggerla e con la quale ha mantenuto rapporti. Le organizzazioni mafiose oggi fatturano 150 miliardi di euro, oltre a 80-90 miliardi di traffico di droga – ha spiegato Bongiovanni – siamo il Paese più corrotto del mondo, con miliardi di euro strappati ai nostri giovani e con magistrati abbandonati dalla politica”. Proprio sul rapporto politica e magistratura si è soffermato l’avvocato Antonio Ingroia, il quale ha posto l’accento sulle “trattative Stato-mafia che hanno permesso alla criminalità di sopravvivere e di mantenere quel sistema di potere politico-economico che vede i magistrati con la schiena dritta in difficoltà. Abbiamo bisogno di una diversa classe dirigente, di un diverso ceto politico e di una diversa cultura politica».
E, infine, la toccante e commovente testimonianza di Salvatore Borsellino, il «fratello di sangue di Paolo, ma non il fratello legato alla sua terra per amore. Io ho lasciato Palermo a 27 anni pensando così di aver risolto i miei problemi con la Sicilia, mentre Paolo è rimasto a lottare la mafia insieme con il suo vero fratello, Giovanni Falcone. Entrambi sono stati uccisi in autentiche stragi di Stato di cui ancora oggi non abbiamo giustizia e verità” ha spiegato il presidente del movimento Agende rosse.