Buio in sala Roman Polanski fa suo lo storico “J’accuse” di Emil Zola che portò alla risoluzione dell'affaire Dreyfus sottintendendo come si possa rimanere vittime di una ragion di Stato, fasullo pretesto di giustizia e libertà. Tra i due protagonisti della storia, Pickqart e Dreyfus non c’è riconoscenza né solidarietà ma solo la comune rivendicazione di uno stesso diritto, l’uno per difendere la propria vita, l’altro per difendere la verità
Vincitore del Leone d’argento Gran premio della giuria alla 76ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, “L’ufficiale e la spia” di Roman Polanski ritorna sullo storico affare Dreyfus, esempio di discriminazionae su base religiosa che vide l’ufficiale di artiglieria ebreo alsaziano Alfred Dreyfus accusato e condannato ingiustamente di tradimento quando nessuna prova evidente a suo carico era stata riscontrata.
E il film di Polanski parte dal vastissimo cortile interno dell’École Militaire di Parigi, dove il capitano dell’esercito francese Alfred Dreyfus (Louis Garrel), subisce l’umiliazione dell’essere degradato: gli strappano le stellette, spezzano la sua sciabola d’ordinanza mentre tremante d’indignazione, grida la sua innocenza. Accusato di spionaggio a favore dei tedeschi, viene condannato al confino nella lontana isola del Diavolo, nella Guaiana francese dove il carcere della parola è più duro dell’isolamento e dei ceppi notturni. Se un militare affonda nelle paludi del disonore un altro assurge per superiori qualità e viene incaricato alla direzione del Servizio di Intelligence Militare. E’ il colonnello Pickqart (Jean Dujardin), uomo colto dall’intelligenza superiore la cui unica pecca è la relazione con la maritata Pauline (Emmanuelle Seigner) donna libera nell’agire e nel pensiero che lo sosterrà per tutta la vita.
Insediatosi nel nuovo compito ben preso si scontra con lo strapotere dell’Esercito nella Francia dell’ultimo XIX secolo, un sistema, ottuso che nel film rasenta i tratti del farsesco. Nel tetro edificio che puzza di fognatura e dove i passi sull’impiantito risuonano insieme al tintinnio di chiavi e chiavistelli si sigillano per sempre i dossier segreti e verità e falsità perdono l’essenza del loro significato. Convinto come tutti della colpevolezza di Dreyfus, quando le informazioni ai tedeschi continuano, intuisce e poi scopre che il vero traditore va cercato e trovato altrove. La volontà di rivedere le prove e di riabilitare il povero Dreyfus lo spingono ad analizzare il bordereau, ossia il documento che proverebbe la colpevolezza del capitano, e confuta le certezze del grafolo Alphonse Bertillon (Mathieu Amalric) che aveva riconosciuto lo scritto come appartenente a Dreyfus.
Con in mano le prove ed il nome del vero traditore però Pickqart sbatte contro l’enorme muro di gomma delle Istituzioni militari e politiche in quanto la revisione del processo porterebbe ad ammettere l’errore e sarebbe dunque preferibile sacrificare il già condannato Dreyfus che per dipiù è anche ebreo. L’ostinazione del colonnello ben presto gli guadagneranno una feroce e pericolosissima battaglia personale. Non resta dunque a Pickqart che rivolgersi alla stampa che nell’editoriale dell’Aurore redatto da Emil Zola trova nella lettera aperta al presidente della Repubblica francese Félix Faure, la denuncia pubblica sulle irregolarità commesse durante il processo di Dreyfus.
Polanski fa suo il “J’accuse” di Emil Zola sottintendendo come si possa rimanere vittime sotto la costruzione di inganni orchestrati su prove scarse e indiziarie. Il film, confezionato in modo eccellente, dosa fatti storici ed elementi attualissimi. In una vicenda che può essere datata in qualunque periodo si mettono in gioco i principi dell’etica, della coscienza individuale dell’uomo sia nel privato che nel professionale, che molte volte rischiano di essere schiacciati dalla ragion di Stato, fasullo pretesto di giustizia e libertà. Polanski sollecita dunque a gettare il cuore oltre l’ostacolo, anche quando questo risulti difficile, fastidioso o pericoloso. In una mirabile sovrapposizione di temi che non indulge mai alla confusione la questione dell’antisemitismo, le lotte politiche, la condizione della donna, diventano giusto coinvolgimento emotivo.
Anche il reintegro di Dreyfus avviene senza piena soddisfazione ma in virtù di una grazia concessa in seguito al riconoscimento delle attenuanti. Quindi nessuna vittoria schiacciante ma, come è caratteristica di Polanski, il sondare sull’ambiguità dell’essere umano, dove nulla è mai lineare o scontato. Tra i due uomini protagonisti della storia non c’è affetto, riconoscenza né solidarietà ma solo la comune rivendicazione di uno stesso diritto, l’uno per difendere la propria vita, l’altro per difendere la verità. E nell’ultima scena dove i due uomini si confrontano dopo l’avvenuta riabilitazione del militare stona la pretesa dell’equità di Dreyfus all’ormai diventato ministro della Guerra. Dreyfus protesta poiché gli anni in cui ha ingiustamente scontato la pena non gli sono stati riconosciuti, impedendogli di raggiungere il grado di tenente colonnello mentre Pickqart è diventato ministro grazie al riconoscimento dell’errore giudiziario a suo danno. Ma Pickqart è ormai ministro; sta dalla parte delle Istituzioni e non può o non vuole più brigare per cambiare le leggi e i due uomini che non hanno più nulla da dirsi, si salutano con deferenza per non rivedersi mai più.
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