Blog I guanti indossati come patetica difesa dal virus, sgraziati e opprimenti come un profilattico, associati al braccialetto minacciato come incombente misura dal comitato di salute pubblica, mi dettano pensieri rabbiosi e un’implacabile nostalgia dei guanti, dei bracciali del tempo che fu. Oggetti di fatua bellezza, reliquie buone per chi frequenta ancora la grande letteratura, dove quei raffinati accessori, ispiravano ammalianti chimere e struggenti nostalgie
E vada pure per la mascherina, che mi fa sentire Jesse James all’assalto della diligenza. Ma quei guanti indossati come patetica difesa dal virus, e sgraziati e opprimenti come un profilattico, associati al braccialetto minacciato come incombente misura dal comitato di salute pubblica, mi dettano pensieri rabbiosi e un’implacabile nostalgia. Di cosa?
Dei guanti, dei bracciali del tempo che fu. Oggetti di fatua bellezza, cari alle nostre mamme e nonne, oggi reperti di un “mondo di ieri” in cui grazia e leggiadria si sposavano tuttavia col privilegio di casta, con una separazione ancora rigida fra le classi sociali. Oggi reliquie buone, forse, solo per un attardato feticista. O per chi frequenti ancora la grande letteratura, dove quei raffinati accessori, se indossati da una Natasha Rostova o da una Oriane de Guermantes, irradiavano una smisurata portata simbolica, ispiravano ammalianti chimere e struggenti nostalgie.
Nella Vienna gaia ma già crepuscolare di primo Novecento si aggirava Friedrich Kargan, il protagonista del romanzo Il profeta muto di Joseph Roth. Futuro leader – e poi vittima – della rivoluzione bolscevica, Kargan s’imbatteva in un’epifania femminile di trasognata eleganza, tanto remota dalla sua condizione attuale di reietto così come da quella – prossima, ma ancora imprevedibile – di rivoluzionario. Seguì la sconosciuta, incantandosi al moto morbido e ondulato che i passi di lei imprimono ai fianchi, alle spalle, alle stoffe dell’abito. La donna entrò in un negozio: «Sedeva davanti al banco, gli voltava la faccia e si provava dei guanti. Teneva il gomito sinistro appoggiato, le dita, diritte, erano in paziente attesa. Accarezzava la pelle nuova, chiudeva la mano a pugno e la riapriva, passava delicatamente la mano destra sulla sinistra, intenta al gioco incantevole, affascinante, delle articolazioni e delle dita».
Il fugace spettacolo della sconosciuta che prova un guanto sulla mano agile e nervosa, articolando le dita fasciate dalla pelle preziosa, non abbandonerà mai il temutissimo e poi perseguitato Kargan; anzi s’intreccerà, lungo la fatale parabola dell’ascesa e della rovina, con l’idea stessa della rivoluzione, con quella chimera vagheggiata e posseduta, poi perduta per sempre.
Mezzo secolo più tardi Vitaliano Brancati evocava un’analoga apparizione femminile, ancora una volta affidata al voluttuoso guizzo d’una sineddoche (una parte per il tutto, un “braccialetto” per dire d’un intero mondo di agio e delicatezza). E come l’absburgico Roth alle prese con lo spettro della rivoluzione, nella memorabile ouverture di Paolo il caldo il siciliano Brancati modula una fantasticheria pudicamente erotica, ma screziata di umori polemici: «Voterò per la terra ai contadini e per le fabbriche agli operai, ma questo non vieterà che i miei ricordi siano quelli che sono, e che fra le cose che mi hanno fatto tremare il cuore possa trovarsi un braccialetto tintinnante sul polso della figlia di un terriero».
Un bracciale come reliquia del “mondo di ieri”, come residuo d’una idea aristocratica del Bello, che nessuna rivoluzione s’azzardi a cancellare. Lo scrittore e intellettuale liberale, strenuo avversario delle “dittature” (fascista, comunista, cattolica), potrà pure concedere al fronte progressista una motivata adesione elettorale, ma – quel che più conta – mantenendo intatti «tutti i diritti sulle mie sensazioni, i miei sentimenti, i miei ricordi e le mie immaginazioni», resistendo a quanti «in nome della giustizia, […] vogliono entrare nella nostra intimità» e facendo «squillare milioni di io con la potenza di corni di Orlando».
Il guanto di Roth, il braccialetto di Brancati: la folgorante rivelazione di un dettaglio evoca la totalità non più ricomponibile di quel mondo trascorso, paradiso perduto di garbo e di bellezza, omologato dalla modernizzazione capitalistica e minacciato dalla rivoluzione proletaria. Evoca quel “centro” perduto che irradiava bellezza e valori, poco importa che si trattasse dell’absburgica “cripta dei cappuccini” o dell’umile “casa del nespolo”, travolte entrambe dalla speculazione affaristica, dalle “iene” borghesi esecrate dal principe-Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.
E noi, cosa rimpiangeremo, mentre infiliamo la mano in quella plastica orrenda? I monili e le ciprie delle nostre mamme? I barbagli dorati d’un fermaglio sulla chioma corvina della compagna di classe? I rituali delle “visite” pomeridiane allietate dal profumo di tè e rosoli? Audrey Hepburn incantata dalle vetrine di Tiffany e Marilyn dai diamanti, suoi best friends? Il miraggio di luxe, calme et voluptè che incantava Baudelaire? Era un mondo, quello, forse altrettanto spietato; ma alleggerito dalla grazia, dall’amabilità, dalla cortesia; un mondo su cui era la donna a imprimere il suo prezioso sigillo, a infondere la sua ingioiellata malìa, e non un virus a isolarci, a mascherarci, a incattivirci.
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