Blog Il nostro inno non è il più bello del mondo ma un inno non si sceglie, si eredita – bello o brutto che sia – da una tradizione. E l'inno di Mameli è figlio di quel classicismo democratico-risorgimentale che diede all’Italia il suo Vangelo: “I Sepolcri” di Foscolo, splendida tavola dei valori per un paese civile, laico e fondato su un’etica della memoria. Nella quale mi riconosco nonostante tutto. Nonostante Mussolini e Andreotti, nonostante Gelli e Sindona, nonostante Feltri e Salvini
«Che schiava di Roma Iddio la creò…»: e scattavano, qualche anno fa, il dito medio di Bossi, i rutti e le flatulenze dei suoi seguaci, oggi invece (quanti miracoli sulla via di Damasco!) da separatisti diventati italianissimi, anzi: “prima gli italiani”. Piroette del trasformismo italico; e reciproca attrazione di due retoriche solo apparentemente contrapposte: quella delle “piccole patrie” (e non solo la Padania, anche la Trinacria sbandierata al suon di marranzani dal sicilianismo vittimistico e querimonioso!) e quella della Patria con la P maiuscola, coi confini sbarrati e vigilati da Enrico Toti con la stampella e Salvini con l’arancino.
L’avevano inventata i poeti, l’Italia; e cinque secoli dopo Dante fu ancora un pugno di poeti, gli uomini del Risorgimento, a incaricarsi di realizzarla. Bene, male? E l’Italia di Cavour e dei Savoia era quella sognata da Mazzini? Certamente no. Perciò oggi occorre farsi delle domande: su una unità nazionale sempre più sfaldata, sui miti e sui riti che per più d’un secolo l’hanno consacrata e oggi dicono poco non solo agli zotici padani ma alle giovani generazioni, sempre più immemori, sempre più indifferenti (oppure sempre più apolidi, sempre più – beati loro – cittadini del mondo); ma anche su cosa significhino, quella identità, quella bandiera, quell’inno, in un mondo globalizzato, in un Occidente americanizzato, in una realtà in cui le carte geografiche si sono polverizzate nella “rete”.
E partiamo proprio da Mameli e da quell’inno, partiamo da Roma di cui saremmo “schiavi”: era il mito della Roma repubblicana di Catone e dei Gracchi, per gli uomini che facevano l’Italia e avrebbero voluto farla repubblicana e democratica; e per i martiri della Repubblica romana di Mazzini e di Mameli, per il loro sogno di libertà, autodeterminazione, pace tra i popoli. Ma la politica (questa politica!) pretende oggi di dettare la storia, di riscriverla per legittimare l’esistenza – e gli spropositi – di un’élite onnivora e arrogante. Lo chiamano revisionismo: e c’è chi riabilita i “ragazzi di Salò”, c’è chi beatifica i briganti filoborbonici, c’è chi confonde Garibaldi con Jack lo squartatore.
C’è anche chi, con intenti meno bellicosi e del tutto legittimi, sostiene soltanto che l’inno di Mameli è brutto, che il suo lessico è enfatico e obsoleto, la sua musica una stucchevole marcetta. D’accordo: il nostro inno nazionale non è dei più belli: l’elmo di Scipio, la coorte (con due O, ricordiamolo!) e tutto quel corredo di simboli pugnaci ci lasciano interdetti. Ma che dire del più bell’inno, della “Marsigliese” che tutti invidiamo, quando invita a marciare affinché “un sangue impuro” (quello – diciamolo pure – dei dissidenti) “fecondi le nostre zolle”? Roba da Germania hitleriana, o da Cina di Mao!
E invece no: i linguaggi vanno storicizzati; e quello di Mameli è comunque figlio di quel classicismo democratico-risorgimentale che diede all’Italia il suo Vangelo: “I Sepolcri” di Foscolo, splendida tavola dei valori per un paese civile, laico e fondato su un’etica della memoria. Insomma, tutto ciò che l’Italia, ahilei, non è. E un inno non si sceglie come al festival di Sanremo, ma si eredita – bello o brutto che sia – da una tradizione. Nella quale, per quanto mi riguarda, mi riconosco nonostante tutto: nonostante Mussolini e Andreotti, nonostante Gelli e Sindona, nonostante Riina e Berlusconi, nonostante Feltri e Salvini.
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