HomeBlog
Blog

Amo i western, dove il mito mendace della frontiera diventa leggenda

Blog Nelle narrazioni stereotipate dei film western c’era tutta la grammatica del cinema, in quei film viveva e morì l’ultima epopea nel mondo moderno. Narrazioni mendaci, certo; ma non è sempre mendace il mito? E un mito è quel West reinventato tra le quinte di un set, capace di convertire le miserie della storia in attraente chimera: quella d’un ricominciamento a tu per tu con la natura, su una strada polverosa ai cui estremi s’affrontino il Bene e il Male

Amo i film western, li vedo e rivedo con la stessa trepidazione con cui un giovane dell’Europa accecata dalle dittature tra le due guerre vi apprendeva una lezione di libertà, si imbeveva dello “spirito della frontiera”, limite da superare e natura da convertire in storia con la zappa del colono, la Bibbia del puritano e la Colt del gunman.

Amo i western perché in quelle narrazioni stereotipate c’era tutta la grammatica del cinema, perché in quei film viveva e morì l’ultima epopea possibile nel mondo moderno. Narrazioni mendaci, certo; ma non è sempre mendace il mito? E un mito è quel West reinventato tra le quinte di un set, ma capace come il mito di convertire gli orrori e le miserie della storia in nobilitante e mobilitante leggenda, in attraente chimera: quella d’un ricominciamento, d’un rinverginamento, a tu per tu con la natura incontaminata, o su una strada polverosa ai cui estremi s’affrontino armi alla mano il Bene e il Male.

“In Without Knocking” di Charles Marion Russell (1909), Google Art Project

Sere fa ho rivisto in TV un western di quasi mezzo secolo fa, Il pistolero di Don Siegel, dove un John Wayne vecchio, malandato e appesantito, coraggiosamente recitava se stesso e la sua decadenza, impersonando un bounty-killer di là con gli anni che, nel corso della sua ultima e malcerta spedizione punitiva, scopriva d’essere condannato dal cancro, e andava perciò a sfidare le pallottole nemiche come chi va comunque a morire, ad abbreviare lo strazio di quell’estremo appuntamento.

Sì, proprio John Wayne, the Duke, oggi il meno amato per via delle sue simpatie reazionarie e guerrafondaie; ma come diceva il più snob e radical dei cineasti, Jean-Luc Godard, «come si può odiare John Wayne per le sue idee di destra e amarlo alla follia quando solleva tra le braccia Natalie Wood in Sentieri selvaggi?». Il mito ha a che fare coi fondamenti, coi valori primordiali – amore e morte, giustizia e compassione, bellezza e abnegazione –, non con le scelte effimere della cronaca.

In quel film crepuscolare sulla vecchiaia e la morte dei miti, c’era anche un’anziana, ma sempre bellissima e intelligente (bella d’intelligente e fiera bellezza) Lauren Bacall; e a completare il trittico de senectute c’era pure l’altrettanto vecchio Jimmy Stewart, nei panni del doc di frontiera, che a Wayne rivelava la natura del suo male, con la complice tenerezza e il rude pudore che solo gli eroi del western, e i protagonisti d’un mondo che sta per estinguersi, possono e sanno sfoggiare. Qualche anno prima, del resto, nel fordiano L’uomo che uccise Liberty Valance, era stato Wayne a iniziare Stewart al mistero della morte, e a regalargli un mito da convertire in storia.

John Wayne e Lauren Bacall in “Il pistolero” di Don Siegel del 1976

Poi sono morti, come in quei film. Non importa come, né dove: «Che importa dove si giace, quando si è morti? In fondo a uno stagno melmoso o in una torre di marmo sulla vetta di una montagna? si è morti, si dorme il grande sonno, non ci si preoccupa più di certe miserie. Si dorme il grande sonno, senza badare se si è morti male…»: recitava così il disincantato Marlowe di Chandler, impersonato nel Grande sonno di Hawks dal magnifico Humphrey Bogart.

Bogart, Stewart: miti d’ieri. Quando il mito parlava ancora, e anche a costo di mentire comunicava modelli e valori: Stewart cow-boy mite e malinconico nei western di Anthony Mann, Stewart americano qualunque candido e giusto nei film di Frank Capra, Stewart caparbio e sgomento nei due capolavori di Hitchcock.

E i miti d’oggi? Non comunicano nulla, rimandano solo a se stessi, si spengono nel riflesso opaco d’un bel volto o d’un corpo da copertina. Invece Stewart e Bogart, Robert Mitchum e Clark Gable, Gary Cooper e John Wayne, Henry Fonda e Gregory Peck, Kirk Douglas e Burt Lancaster erano maschere del destino, erano volti da ricomporre in un’ideale fenomenologia dell’umano, erano come i personaggi wagneriani incarnazioni di Grundthemen: l’amicizia e l’avventura, la lealtà e la tenacia, il delitto e il castigo o – per dirla col Vittorini innamorato di quell’America – la “purezza” e la “ferocia”.

E la morte, naturalmente. Virilmente messa in scena, come nei film citati prima. O come negli Spostati, in cui John Huston commise l’estrema perfidia di prendere tre di quei grandi, Clark Gable, Marilyn Monroe e Monty Clift, tutti votati alla morte (e infatti morirono da lì a poco), sbatterli in un deserto e farli dilaniare dibattendo della morte, la loro morte, paventata e invocata al cospetto d’un mondo che scompare, d’una libertà che agonizza come i fieri mustang, i cavalli selvaggi di quel deserto. E poi fu lui, fu Huston, prima di raggiungere trent’anni dopo i suoi amici per una bella sbronza tra le nuvole, a dedicare alla morte, ai morti, alla sua Irlanda la splendida elegia joyciana di The Dead: «La sua anima lentamente svanì, sentendo la neve cadere lieve lieve su tutto l’universo, e lieve lieve cadere, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi, su tutti i morti».

Clark Gable e Marilyn Monroe in “Gli spostati” di John Houston del 1961

L’ombra di quel tramonto, ovvero la disperata agonia del mito e d’ogni forma di epos nel mondo disincantato, s’allunga come le mani di Jennifer Jones e Gregory Peck tese a sfiorarsi in Duello al sole dopo essersi data reciprocamente la morte, come la corsa di Butch Cassidy e Sundance the Kid a incontrare il fuoco nemico, come la marcia impettita del “mucchio selvaggio” verso l’ultimo scontro e il sacrificio: coronato in flash-back da un’ultima, omerica, collettiva risata che condensava l’entusiasmo e la desolazione, il vitalismo e la voglia di perdersi di quei desperados e nostra.

Jennifer Jones e Gregory Peck in “Duello al sole” di King Vidor

Nostra, appunto: delle generazioni che ci hanno preceduto, di mio padre che amava James Stewart, e della mia, di me che amavo Richard Widmark o Glenn Ford. Non oltre. Quando anni fa chiesi in aula a un centinaio di studenti chi amasse il western, non una mano si levò. E dire che la mia domanda era stata suscitata dal nome d’una di loro letto all’appello, Clementina: «È proprio un bel nome Clementina» diceva con un sorriso triste Henry Fonda in Sfida infernale (My darling Clementine) di John Ford, prima di voltare le spalle alla brava ragazza del West e di spronare il cavallo verso gli interminati spazi della frontiera. E della leggenda.

Condividi su

Commenti

WORDPRESS: 0

SicilyMag è un web magazine che nel suo sottotestata “tutto quanto fa Sicilia” racchiude la sua mission: racconta quell’Isola che nella sua capacità di “fare”, realizzare qualcosa, ha il suo biglietto da visita. SicilyMag ha nell’approfondimento un suo punto di forza, fonde la velocità del quotidiano e la voglia di conoscenza del magazine che, seppur in versione digitale, vuole farsi leggere e non solo consultare.

Per fare questo, per permettere un giornalismo indipendente, un’informazione di qualità che vada oltre l’informazione usa e getta, è necessario un lavoro difficile e il contributo di tanti professionisti. E il lavoro in quanto tale non è mai gratis. Quindi se ci leggi, se ti piace SicilyMag, diventa un sostenitore abbonandoti o effettuando una donazione con il pulsante qui di seguito. SicilyMag, tutto quanto fa la Sicilia… migliore.