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Lode al romanzo se sprigiona ancora “il ruggito dell’iperbole”

Blog Lode al romanzo che ti cambia la vita, che della vita riscatta tutto ciò che è “mediocre, contingente, mortale”, che dilata i sensi e la coscienza e ti scaraventa in altri mondi, latitudini ed esistenze, «che esalta e che consola» oppure può perfino trascinarti negli abissi della follia o della perdizione. Ma chi subisce, oggi, il fascino delle grandi narrazioni che fino a qualche tempo fa hanno raccontato e spiegato il mondo?

Lode al romanzo, miglior compagno in questi tempi di reclusione. Lode al romanzo, trovatello plebeo tenuto ai margini per secoli dalla letteratura consacrata, ma capace d’imporsi grazie al suo ingegno di reietto: d’imporsi come quella classe borghese, altrettanto tenuta ai margini e altrettanto ingegnosa, che in lui si riconobbe e si raccontò. Lode al romanzo che ti cambia la vita, che della vita riscatta tutto ciò che è “mediocre, contingente, mortale” (chiedetelo a monsieur Proust), che dilata i sensi e la coscienza e ti scaraventa in altri mondi, latitudini ed esistenze, «che esalta e che consola» oppure – a lasciarlo fare, a credergli troppo – può perfino trascinarti negli abissi della follia o della perdizione (chiedetelo a don Chisciotte, o ad Emma Bovary).

Ma chi subisce, oggi, il fascino delle grandi narrazioni che fino a qualche tempo fa hanno raccontato e spiegato il mondo? Erano narrazioni tutte le grandi fedi e teorie concepite dalla civiltà occidentale; erano narrazioni la Sacra Scrittura e i poemi omerici, la Divina Commedia e gli affreschi della Sistina, la filosofia dello Spirito di Hegel e Il Capitale di Marx, il darwinismo e la psicanalisi, per non dire del grande romanzo ottocentesco o del cinema che forse meglio di ogni arte ha saputo raccontarci il Novecento: narrazioni diverse della storia umana, vale a dire diverse ricostruzioni del passato e prefigurazioni dell’avvenire, capaci perciò d’inserire la storia d’ognuno in un continuum dotato di senso e orientato a uno scopo; e per ciò stesso di sanare le contraddizioni, di guarire le ferite, di redimere l’insensatezza della quotidianità e della storia destinandole a un fine, a uno scioglimento romanzesco.

Al romanzo abbiamo chiesto di tutto: di mettere ordine nel mondo o di mimarne il caos, di rifletterlo come in uno specchio o di smontarlo come un giocattolo, di fare propaganda o di esaltare l’orrore, di raccontarci la società o di inabissarsi nella psiche, di straniarci o di radicarci, di rivelare o mentire, di convincere o turbare. E il romanzo, servizievole e duttile, ha sempre risposto: è nella sua natura metamorfica adattarsi alla forma del presente, incarnarne le contraddizioni e patirne gli incubi; e mettersi in discussione, esibire i suoi trucchi e inventarne di nuovi, piegarsi di volta in volta alle necessità e sfruttarle scaltramente come quei pìcari, quei bastardi, quegli industriosi naufraghi e quelle accorte ladre o serve o puttane, che ne popolarono i primi paesaggi.

E ce ne vorrebbero, di quei guastafeste, nel romanzo italiano d’oggi così rassettato e perbenino, a far pipì sul tappeto del tinello, a disegnar le corna sul ritratto del nonno. E invece oggi mi capita d’aprire un romanzo recente, o d’accendere la TV per vedere un film, e cosa mi raccontano? Non ci posso credere! Ancora l’argomento principe della romanzeria di consumo ottocentesca: sì, sempre lui, l’Adulterio, il triangolo originario (‘isso, ‘issa e ‘o malamente!), lo spettro del tradimento femminile che si aggira (ben più del proletariato di Marx ed Engels!) nelle coscienze borghesi, oppure – dall’altra parte della barricata sessista – il timor panico dell’abbandono o la prudente trasgressione di qualche attardata Karenina.

Già, proprio così. Siamo ancora in piena cavalleria rusticana o tutt’al più nei salotti viennesi dei pazienti di Freud. Che tema sprecato, il Tradimento, se non si tradisce che un coniuge! Tradiscano la patria, le fedi, gli ideali, siano degni di Giuda o di Jago, vadano a militare a Salò o a rapire Moro, riscrivano se sono capaci I demoni o il Voyage au bout de la nuit, ma non rompano coi loro problemucci personali o con quelli altrettanto stantii dei loro quattro amici al bar… Quando il romanzo diventa autobiografia e non si riesce a esplorare il possibile, a travalicare ere e latitudini, e quando poi quella biografia è l’asfittica routine d’un travèt della penna malmaritato e magari pure deluso dalla Sinistra, be’ allora non resta che replicare la nobile scelta di Werther e di Ortis: ma non nella pagina.

E noi? Alla ricerca d’una pagina che dalle miserie del mondo e dell’esistenza faccia sprigionare – per dirla con Vittorini – il “ruggito dell’iperbole”, non ci resta che sognarla la sera alla finestra, come il destinatario del “messaggio dell’imperatore” di Franz Kafka.

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