Blog Al pari di Guido Morselli in "Un dramma borghese" e di Giorgio Manganelli in "Ti ucciderò, mia capitale" mi appartiene l'elogio della verecondia e dell'inappetenza, vera idiosincrasia per la masticazione in comune. Provo fastidio per le pagine dei social grondanti sughi e saliva. Anatema a Trimalcione e Pantagruele, lunga vita ai jainisti dalla bocca velata e agli anacoreti, allietati da bacche e locuste
Guido Morselli, Un dramma borghese:
«Sono del parere dei monaci buddhisti, che dormono insieme, fanno il bagno insieme, si confessano tutti insieme, ma per i pasti si chiudono nelle loro celle. Forse perché sono parco per istinto, non gusto i piaceri conviviali. La funzione del mangiare che ha tanto dell’intimo, con le sue complicazioni, e, se sia accompagnata dai debiti stimoli, tanto del sensuale, con la sua mimica e i suoi suoni, mi si è sempre circondata di uno scrupolo di pudicizia, persino più forte di quella che dovrebbe circonfondere l’atto amoroso. Del quale è stato detto con ragione che sotto il profilo estetico non è così osceno, cioè sgradevole da vedere. Le religioni che lo richiamano nei loro riti, non mi paiono di peggior gusto delle altre che ispirano il loro climax liturgico alla ingestione del cibo».
Giorgio Manganelli, Ti ucciderò, mia capitale:
«Quando mangiavamo alla stessa tavola, mi riempiva di sgomento la paziente ferocia con cui quella gente toccava il cibo, vuotava i bicchieri rossi del vino – per me una sorta di sangue acido – e soprattutto mi spaventava il loro rapporto con la carne, quegli animali morti di violenza, sanguinolenti pezzi di essere vivo, vitale, capace di vita, con cui sigillavano la loro solenne, rituale volontà di vivere. Le loro voci mi riempivano di amarezza, tanto indifferente era la generosità con cui maneggiavano le loro gole, e ogni movimento di quei corpi che sapevo sudici mi era sgradevole, estraneo. Mio padre e mia madre mi riguardavano poi con iroso disgusto, poiché sapevo dei loro rapporti: e mi parve che la volontà di vivere fosse qualcosa da acquistare con troppa umiliazione, troppa degradazione, se dovevo accettare l’idea che quelle creature fatte di cibi, di sangue, di sudore, di escrementi, quelle creature dalla pelle screpolata e cotennosa, accettavano anche quella tetra comunanza di un letto in cui indovinavo i sinistri contorcimenti, i viluppi orribili da cui nasceva la vita».
Due elogi dell’inappetenza. E della verecondia, che è un valore cui non si fa più riferimento, è una parola archiviata negli scaffali più alti e polverosi d’una biblioteca che non ha scale per raggiungerli. Vi lascio questi due cammei d’autore senza aggiungere altro, fuorché la mia idiosincrasia per la masticazione in comune. E oltre al fastidio per la tortuosa deglutizione e prima digestione del vicino di tavola, o per le smorfie impresse sulle grazie della vicina dal suo avido rimpinzarsi, che dire di quelle pagine dei social grondanti sughi e saliva? Anatema a Trimalcione e Pantagruele, lunga vita ai jainisti dalla bocca velata e agli anacoreti, allietati da bacche e locuste.
Ricordate quel film di Buñuel dove i commensali siedono su altrettanti water, ed esplicano socievolmente le loro funzioni, mentre per mangiare chiedono il permesso di chiudersi da soli in un apposito stanzino? Ecco: una convenzione vale l’altra, e ingurgitare non è più o meno bello d’altre funzioni vitali.
Ultima notazione: Manganelli alla fatica brutta a vedersi dell’ingestione associa quella del sesso. E qui non possiamo seguirlo. A meno che per sesso s’intenda la sua rappresentazione ormai prevalente nei film: una colluttazione tra infoiati, una sveltina scomoda e feroce. Ma noi abitiamo altrove.
Post scriptum: dopo il Covid accetto comunque inviti a pranzo, a patto che sia concluso dalla cassata siciliana e da una soave malvasìa.
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