Blog Reale o leggendaria che sia, quella della Papessa Giovanna è la storia di una donna coraggiosa, intelligente e volitiva che in nome della conoscenza e della libertà ha imbrogliato la Chiesa sfidando la sua cultura "maschia"
Giovanna ebbe la sfortuna di appartenere al IX secolo, momento pessimo per nascere donna; ebbe però il privilegio delle umili origini che le consentiva la libertà di gironzolare liberamente tra i banchi del grande mercato lungo le rive del Reno.
Nella città di Magonza, oltre a circolare grandi quantità di merci alimentari e prodotti artigianali, vivace era la presenza di monaci predicatori la cui attività missionaria era quella di evangelizzare il popolo ignorante.
Pian piano così l’anima commerciale diventava opportunità multiculturale e la tollerante mescolanza di individui provenienti da ogni dove trasformarono quella città in sede religiosa, tanto da farle meritare il primato di centro ecclesiastico dell’Impero. I sermoni itineranti sostanzialmente raccomandavano il freno ai piaceri del corpo, indicando nell’ortodossia il buon indirizzo del governo spirituale e favorendo al contempo il fiorire degli ordini religiosi; la parola ardentissima ed ispirata guadagnò ben presto il consenso di molti giovani che dalle campagne cominciarono a popolare i monasteri.
All’interno delle severe mura, oltre ai rudimenti ecclesiastici, si studiava latino, greco e filosofia; inoltre si curava la ricopiatura dei testi antichi malridotti le cui nuove copie sarebbero state destinate alle biblioteche decimate dalle invasioni barbariche. Nel loro ruolo di riproduttori di sapienza, i giovani novizi trovavano la strada spirituale per la salvezza delle loro anime, ed anche le più tiepidi vocazioni finivano nel votarsi alla conoscenza contribuendo al contempo alla fama ed al prestigio del monastero.
Ma se questo valeva per le comunità religiose maschili, lo stesso non si poteva dire per quelle femminili, dove monachesimo significava essenzialmente clausura, preghiera e telaio.
Giovanna viveva con la famiglia nel contado limitrofo alla città; il padre proveniente dall’Inghilterra era un prete di campagna, ingabbiato in un credo rigido e rigoroso, e con una nutrita schiera di figli: Giovanna era la sola femmina; per questo era trattata alla stregua di una serva, a cui bastevole doveva essere il semplice sostentamento alimentare. A lei, ancora bambina toccavano i lavori più pesanti ed il divieto assoluto a partecipare alle lezioni di grammatica e di calcolo che il padre impartiva ai fratelli maschi. Le spettavano anche le piccole commissioni da fare in città in cui si caricava per più chilometri di un sacco di farina o di orzo, alla fine trascinato per terra. Giovanna non fiatava e si accollava ogni cosa pur di poter intrufolarsi tra i capannelli di persone che come pubblico spontaneo si assembravano intorno a quei missionari che sembravano avere una risposta a tutto. Sulla strada di ritorno, Giovanna imitava i predicatori e, dialogando con se stessa, faceva finta di rispondere ad una sua folla immaginaria cui riportava in spiegazioni confuse quanto aveva molto ascoltato e poco capito.
Tornata a casa una malinconia sottile la illanguidiva al pensiero di doversi rassegnare ad un destino da femmina. Per lei nessuna comprensione, neanche dalla madre che era la prima a ripeterle che quella sua curiosità non era altro che l’alito peccaminoso del diavol, e che per farlo venire fuori doveva piangere e battersi il petto fino a sfinirsi. Non lo fece mai e diede invece ascolto al vigore strano che la orientava, più che per i segreti della Fede, verso lo studio, e decise che sarebbe stata per questo sogno, disponibile a qualsiasi trasgressione. L’occasione arrivò con un evento doloroso, la morte di un fratello appena poco più grande di lei: Giovanna non perse tempo e, sostituendosi a lui, si presentò al grande monastero per essere ammessa come postulante spontaneo. L’esile corporatura, la riservatezza e l’attento ascriversi alla regola del silenzio l’aiutarono a reggere l’ inganno e sostenere il periodo di dura prova previsto per i novizi. All’anziano maestro a cui venivano affidati i giovani, Giovanna sembrò un ragazzetto gracile e taciturno, ma meritevole di intraprendere il cammino che l’avrebbe condotto verso Dio. L’abnegazione che gli altri compagni non avevano, l’obbedienza e la resistenza ai lavori più umili la evidenziarono nel profitto a cui seguì, come promozione, l’ufficio amanuense. Trascriveva in modo veloce e fedele anche i segni grafici più difficili, ricopiando e trattenendo in mente quei concetti che sarebbero diventati suo patrimonio culturale. La vita precedente non esisteva più; amava tutto del monastero: le gelide sale di lettura, il silenzio interrotto solo dal fruscio dei fogli che venivano girati sugli enormi leggii di legno, il bisbigliare ovattato dei monaci che si alternavano agli scriptoria.
Giovanna acquisiva sapienza e sicurezza e, quest’ultima, la rese poco cauta; infatti il nuovo monaco maestro, molto più giovane di quello precedente e più avvezzo forse alle cose del mondo, carpì subito il suo segreto. Giovanna si accorse di come egli la guardasse, ma all’iniziale terrore di essere accusata per un’impostura così grave, seguì la certezza che egli non l’avrebbe mai tradita. Scoprì in un occasionale contatto di mani la comunicazione di una inequivocabile intesa che la turbò profondamente. Per la prima volta nella sua vita captò un’elettricità sessuale, un apprezzamento diverso e coinvolgente che la lusingò molto di più di quello che riceveva per aver fatto un buon lavoro di copiatura. Giovanna non oppose nessuna resistenza e si lasciò guidare su sentieri per lei ancora sconosciuti. Il monaco maestro fu davvero un buon maestro, e Giovanna fu un’allieva scrupolosa e partecipe. Di giorno si limitavano a sfiorarsi immobilizzati dal timore che occhi concupiscenti potessero cogliere una loro imprudenza, ma la notte i loro incontri rivelavano ad entrambi come fossero bravi ad esercitare i piaceri del corpo e come volasse l’animo scevro da ogni pentimento nell’ardere di un fuoco totalmente diverso da quello divino.
L’abitudine che porta alla trascuratezza profilò nell’allusione di un giovane novizio il pericolo di essere scoperti. Prima che fosse troppo tardi, il maestro monaco comunicò all’abate che lui ed il suo discepolo avrebbero lasciato la comunità religiosa secondo l’uso corrente della continua mobilità tra monasteri geograficamente distanti. Con lo scopo di portare all’abbazia di Atene volumi rari e miniature sacre, si misero in cammino e arrivarono alla loro destinazione non senza qualche difficoltà. Il monaco maestro durante il viaggio contrasse una malattia polmonare che lo abbatté fortemente e che dopo qualche mese ne causò la morte. L’inaspettata perdita del compagno e la solitudine della lingua aggravarono i contorni della condizione di Giovanna a cui non rimase altro che potenziare lo sforzo nello studio, estendendolo anche alla dialettica ed alla retorica. Il monastero era infestato da cimici e fame nera, ed il suo distacco, scambiato per ascesi, unito al suo straordinario sapere, le fecero guadagnare una stima enorme tanto che la gerarchia ecclesiastica locale la invitò ad andare in sua rappresentanza a Roma, dove arrivò preceduta dalla fama di specchio di virtù incarnato.
Durante il periodo romano si dedicò ad infondere al clero nuova energia spirituale, stupendo tutti per la pienezza dei suo ideali religiosi. Moriva in quell’anno il papa Leone IV ed i cardinali, ignari che sotto gli abiti talari di Johannes Anglicus si celasse una donna, la innalzarono al soglio papale con il nome di Giovanni VIII.
Alla notizia della sua elezione, fatta in modo veloce affinché non prendessero troppo campo le opposizioni di alcuni porporati, Giovanna dovette sedersi per riprendere fiato. Consapevole che non avrebbe mai più potuto sottrarsi alle conseguenze di quella investitura, avrebbe dovuto celare sotto il talare e lo zucchetto papale, la sua iniziale scelleratezza. In un’epoca in cui il Papa era non solo sovrano della Chiesa, ma anche autorità politica, il Papa Donna volle essere il vero rappresentante di Cristo in terra e si prefisse, riuscendoci, di essere vicino al popolo. Questo era sempre e comunque influenzabile dalle grandi famiglie patrizie romane la cui moralità riassumeva tutti i vizi capitali, e che giocavano sporco a seconda della personale convenienza.
Giovanna conobbe una realtà molto diversa da quella dei monasteri dove gli ordini erano ispirati a ideali di povertà e dove la comunità religiosa si divideva tra lavoro e studio. Operò bene, anzi benissimo, raccogliendo consensi per la sua carità evangelica ed istituendo mense e centri per l’assistenza medica agli ultimi ed ai bambini. Ignorò il dissenso di buona parte del clero di cui mostrò, con i fatti, la palese fragilità nel sostenere che fosse meglio costringere il popolo in contesti quotidiani miseri ed arretratissimi.
La solitudine del soglio papale, però, la spinse alla ricerca di qualcuno con cui condividere il peso del suo segreto. Lo trovò in un giovane prelato che divenne suo segretario personale, e che in breve diventò personalissimo. In un ambiente che si profilava ogni giorno sempre più ostile e transitorio, Giovanna si abbandonò alla nuova relazione, non sentendosi limitata da alcun vincolo di castità e d’obbedienza.
Nell’anno del Signore 853 durante la processione della Pasqua che dal Vaticano andava al Laterano, la cavalcatura del Papa, forse imbizzarritosi per la folla pressante, ebbe uno scarto disarcionando il Papa che, precipitato al suolo, partorì in anticipo un bambino. La folla accorsa in aiuto, alla vista del neonato, inferocit aggredì madre e figlio lapidandoli e poi facendoli trascinare legati ai cavalli.
Finisce così la storia della Papessa Giovanna che, reale o leggendaria, racconta la vicenda di una donna intelligente e volitiva che solo fingendosi uomo poté usufruire delle possibilità riservate agli uomini.
Non importa quanto di vero ci sia, ma non è difficile pensare la vicenda verosimile, così come credibile sarebbe immaginare la maschia reazione della Chiesa. Secondo alcune ipotesi, infatti, pare che il nome di Giovanni VIII sia stato cancellato dal “Liber Pontificalis”, registro cronologico delle successioni papali, e che da allora le processioni papali per la Pasqua siano state deviate nel tragitto, proprio nel tratto tra via dei Querceti e via San Giovanni in Laterano, là dove avvenne il fatto. Ancora oggi in questo angolo di strada esiste una piccola edicola votiva al cui interno c’è una strana “natività”, in cui al posto del volto della Madonna vi è l’effige di un monaco, dai tenui lineamenti, con in braccio un bambino.
Secondo la leggenda, dopo la vicenda ignominiosa della papessa Giovanna, in occasione di ogni elezione di un nuovo Papa, sembra che la consacrazione si concludesse con un rituale d’accertamento: il prescelto al soglio veniva fatto accomodare su una poltrona in porfido rosso al cui centro vi era un foro; alcuni prelati, degni di fiducia ed incaricati dal conclave, si disponevano a palpare con solennità le intimità maschile lasciate libere dalle mutande, e solo quando fossero stati ben sicuri, volgendosi verso l’assise dei presenti avrebbero gridato a gran voce: ‘Virgam et testiculos habet et bene pendentes!
L’assise degli ecclesiastici, tranquillizzata dal verdetto, ancora inginocchiata, sollevata rispondeva: “Deo gratias!”
*** Il titolo “Testiculos qui non habet Papa esse non posset” (“Chi non ha i testicoli non può fare il Papa”) è tratto dal volume Prova di Virilità di Francesco Sorrentino
Commenti