Blog Sostenere - all’indomani della scarcerazione dell'ex boss mafioso Giovanni Brusca – che la legge sui pentiti è sbagliata, è una bestemmia. Brusca, prima dell’arresto uno dei più spietati killer di mafia e, dopo l’arresto, una delle pedine fondamentali per far arrestare decine di criminali mafiosi, è la quintessenza che la legge è giusta. Così come aveva intuito 30 anni fa Giovanni Falcone. Uno come Brusca non lo devi perdonare ma è fondamentale che ci sia. Per questo l'ergastolo ostativo non va cancellato tout court
Quando in Italia si è cominciato a parlare di leggi sui pentiti, era la fine degli Anni 70, l’obiettivo dello Stato era quello di stroncare la violenza del terrorismo politico di sinistra e di destra. La legge 6 febbraio 1980 n. 15, la cosiddetta legge Cossiga, a questo è servita. Oggi non sentiamo più parlare di terrorismo politico nella misura del decennio estremo che furono gli Anni 70 e le Brigate Rosse sono state consegnate al dibattito storico.
Una decina di anni dopo, grazie alle felici intuizioni dei magistrati Giovanni Falcone, Antonino Scopelliti e Ferdinando Imposimato, si arrivò al decreto legge 15 gennaio 1991 n. 8, poi convertito in legge 15 marzo 1991 n. 82 (quindi modificato dalla legge 13 febbraio 2001 n. 45 che introdusse la figura del testimone di giustizia), e i collaboratori di giustizia della mafia cominciarono ad essere presi in considerazione dallo Stato. Grazie al lavoro del pool antimafia negli Anni 80, grazie al contributo fondamentale di un collaboratore di giustizia di rango come fu Tommaso Buscetta, fu imbastito il maxiprocesso a Cosa Nostra.
Rinnegare oggi quello sforzo immane per contrastare il fenomeno mafioso italiano, oggi dominato dalle mafie calabrese e campana, vuol dire rinnegare l’essenza stessa di una democrazia come l’Italia. Sostenere – all’indomani della scarcerazione dell’ex boss mafioso Giovanni Brusca – che la legge sui pentiti è sbagliata, è una bestemmia. Brusca, prima dell’arresto uno dei più spietati killer di mafia al soldo di Totò Riina, la personalità mafiosa più sanguinaria che l’Italia abbia mai espresso, e, dopo l’arresto, una delle pedine fondamentali per far arrestare decine di criminali mafiosi, è la quintessenza che la legge sui pentiti è giusta.
Uno Stato civile e democratico non deve esprimere emotività, si fonda su regole certe per tutti. Così come fu per i brigatisti negli Anni 80, allo Stato democratico non interessava se il percorso di pentimento fosse più o meno sincero. Allo Stato interessava che chi decideva di uscire dal percorso criminale lo facesse con i fatti e non con le parole, dando garanzia inconfutabile di attendibilità nello scardinare i processi criminali da questi conosciuti.
A maggior ragione questo discorso vale quando si parla delle organizzazioni mafiose – oggi soprattutto la ndrangheta e la camorra – sempre più antagoniste dello Stato civile nella gestione dell’ordinario. Uno Stato serio, se promette lo sconto di pena ed un percorso di protezione al pentito, non si può tirare indietro, altrimenti abdica dal suo ruolo di garante della convivenza civile.
Recita l’art. 101 della Costituzione, carta fondamentale che oggi indirettamente celebriamo festeggiando la nascita della Repubblica Italiana, figlia del referendum del 1946 che mandò in soffitta la obsoleta monarchia italiana che aveva ceduto agli abusi del fascismo: “La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Questo vuol dire che i giudici non possono essere obiettori di coscienza: anche se non sono d’accordo con una legge, la applicheranno nei casi e nelle forme prescritte. La legge sui collaboratori di giustizia dice che il collaboratore sconterà almeno un quarto della pena, e se condannato all’ergastolo almeno 10 anni. Così è stato per i 25 anni inflitti e scontati in carcere da Giovanni Brusca, colui che da mafioso era chiamato “il porco”, colui che premette il pulsante che uccise Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, e gli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Colui che fece sciogliere nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo, indubbiamente il più barbaro degli omicidi di mafia, come tragicamente ci hanno evocato i registi Fabio Grassadonia e Antonio Piazza nel film “Sicilian Ghost Story”.
Cinque anni fa, in un’intervista di Zek e Arte France, che entrò a far parte del film “Corleone” del documentarista francese Mosco Levi Boucault, Brusca chiese perdono ai parenti delle vittime per i suoi crimini.
Il punto è che uno come Giovanni Brusca non lo devi voler bene, non lo devi perdonare per quello che ha fatto ma è fondamentale che ci sia. Anzi ci vorrebbero uno, cento, mille Giovanni Brusca. Il punto è che uno come Totò Riina, il capo dei capi delle bestie sanguinarie, non si è mai pentito, anzi si permetteva di dare lezioni di moralità cristiana dall’aula del maxiprocesso. Bastava una sua parola per mandare all’aria il maligno intreccio di interessi fra criminalità organizzata e Stato deviato che ha permesso per anni, grazie a tanti politici compiacenti, lo stupro di un’Isola, la Sicilia, e non solo. Ogni volta che un Brusca si pente, rivive Giovanni Falcone. E’ la nostra laica Pasqua di giustizia che non cessa mai di ripetersi.
A supporto di ciò si inserisce il dibattito parallelo sull’ergastolo ostativo. Ha pienamente ragione su La Stampa Roberto Scarpinato, il procuratore generale presso la Corte di appello di Palermo, ad essere contrario ad una cancellazione piena e semplice dell’ergastolo ostativo, quello che non concede benefici agli irriducibili, perché significherebbe smontare la legge sui collaboratori di giustizia privandola di ogni appeal per i criminali più incallliti. Ha ragione anche Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso dalla mafia, a chiedere alla politica una riforma dell’istituto, alla luce della comunicazione della Corte Costituzionale (corroborata dal parere della Corte europea dei diritti umani) che lo reputa incostituzionale perché non rispetta il principio della rieducazione della pena, e delega il Parlamento ad una legge di riforma. Rispetto del carcerato sì, anche il più crudele, ma senza concedere eccessivi benefici a chi rifiuta ogni collaborazione con la giustizia dello Stato. Maria Falcone: «Concedere benefici a chi neppure ha dato un contributo alla giustizia sarebbe inammissibile e determinerebbe una reazione della società civile ancora più forte di quella causata dalla liberazione, purtroppo inevitabile, del “macellaio” di Capaci».
(Aggiornato il 3 giugno 2021)
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