Blog Quando la degenerazione della politica giunge ai livelli che oggi tutti conoscono, mi soccorre il mio amato Federico De Roberto. Nel 1910 il “vicerè socialista” Giuseppe De Felice lo arruolò nella sua lista in lizza per le elezioni comunali. L'autore de "I Viceré" fu eletto, e, ovviamente, finirà per dimettersi. L'aveva scritto più volte, però, che la politica lo metteva a disagio: "Con le passioni esasperate al grado del parossismo il senso della misura si smarrisce"
Quando la degenerazione della politica giunge ai livelli dei Salvini o dei Grillo o dei Renzi, peggio ancora dei Montante o dei Morisi, chi ha la memoria e la vita ormai lunghe si rifugia nel ricordo delle Tribune politiche televisive di più di mezzo secolo fa, ricche di idee pacatamente espresse, di civili dispute tra differenti e ben argomentati progetti e idealità.
A me capita di tornare ancora più indietro, agli anni felici in cui non eravamo nemmeno un’ardita fantasticheria dei nostri bisnonni, alle loro carte ingiallite in cui cercare scampoli di civiltà. E mi soccorre il mio amato Federico De Roberto, alla cui saggezza di matrice ottocentesca oggi preferisco lasciare la parola.
Nel settembre 1910, a rivolgersi a De Roberto per coinvolgerlo in un’avventura politica, fu Giuseppe De Felice, il “vicerè socialista”, artefice e simbolo della belle époque etnea, della stagione di fervori modernizzanti che promossero Catania a laboratorio politico-imprenditoriale-artistico, e dalla Esposizione del 1907 alla breve avventura di una pionieristica industria cinematografica, e alla capillare propagazione di ricerche e riviste simboliste e futuriste, composero le tessere di quel mito liberty che sarà evocato dal già nostalgico Vitaliano Brancati: «Catania, oh Catania era bella al principio del Novecento!».
De Felice arruolò De Roberto nella lista del “Fascio Democratico delle Organizzazioni Politiche e Professionali Autonome”, in lizza per le elezioni comunali. Fecero da intermediari alcuni amici, fra cui l’avvocato Vincenzo Finocchiaro e il professore Francesco Guglielmino, l’illustre e amabile grecista (e poeta) che fu sodale della vecchiaia derobertiana e maestro del giovane Brancati. Andarono a trovare De Roberto nel suo eremo montano di Zafferana; con loro c’era lo stesso De Felice, che strappò all’attonito scrittore qualche monosillabo dubbioso, qualche espressione d’impacciata gratitudine che, tradotta nel lessico decisionistico del politico, venne scambiata per consenso.
E così accadde che De Roberto Federico, quarantottesimo su sessanta eletti, con voti 3891, venisse insediato nella carica di consigliere comunale, in data 30 settembre 1910, dal commissario prefettizio. Si dimetterà, naturalmente; ma prima del voto, ha già consumato numerosi tentativi, tutti vani, di convincere i suoi caparbi interlocutori a lasciarlo in pace. Scrive lettere a De Felice, a Finocchiaro, e riempie minute su minute, tutte tormentatissime: la politica lo mette visibilmente a disagio, l’agone elettorale lo precipita nel panico. Su una lunga lettera del 19 settembre a De Felice, pubblicata molti anni fa da Carlo Alberto Madrignani, conviene soffermarsi. Eccone uno stalcio.
«Date le presenti condizioni dello spirito pubblico, io temo che, con le migliori intenzioni, il bene della città non possa raggiungersi da nessuna delle parti che se ne contendono il governo. Il contrasto dei principii e l’opposizione dei programmi sono la stessa ragion d’essere dei liberi reggimenti, e i partiti combattono ovunque per la conquista del potere, ma la lotta riesce feconda, è anzi la stessa condizione d’una sana vita pubblica, quando resta contenuta nei limiti che la ragione e la prudenza consigliano e impongono. (…) Con le passioni esasperate al grado del parossismo il senso della misura si smarrisce, e quella che dovrebbe essere un’ordinata battaglia si muta in una barbara mischia. (…) Catania è come un adolescente giunto al periodo critico della crescenza, quando nuovi atteggiamenti, nuovi istinti, nuovi bisogni si manifestano ed urgono. Il suo rapido e costante sviluppo dev’essere disciplinato, favorito ed assicurato con una serie propriamente innumerevole di provvedimenti intorno ad ogni ordine di pubbliche necessità. Qui c’è tutto un mondo da creare, e c’è da creare, che è il più difficile, i mezzi con i quali crearlo: vasta ed ardua impresa, da spaventare i più arditi ed esperti. Com’è possibile compierla, quando le parti che si contendono il pericoloso onere di assumerla sono intente a dilaniarsi e distruggersi? (…) Oggi, (…) mentre ciascuno si compiace di enumerare le colpe altrui, nessuno pare disposto a riconoscere le proprie, (…) e tutti sono senza peccato perché tutti scagliano pietre. Con questa presunzione si lapidano le persone, ma non si edificano case. Per edificare o per rafforzare le case che minacciano rovina, bisogna che tutti si volgano (…) all’opera fruttuosa: opera di risoluzione e di esecuzione da parte di chi sarà chiamato al governo, di critica e di verifica da parte di chi resterà all’opposizione».
È la pagina più “politica” di Federico De Roberto, che dà prova d’un coerente e solido corredo di convinzioni da sincero e sereno democratico, offuscate ma non contraddette da un altrettanto radicato disgusto (già allora!) per la politica come rissa e prevaricazione, da un motivato (ieri come oggi) sgomento per l’insostenibile e grossolana violenza, da “barbara mischia”, della contesa partitica. Ed è una lezione, di moralità e di stile, di garbato distacco e di educazione civica, per noi sgomenti o furibondi epigoni, oggi alle prese coi pronipoti vieppiù degenerati di don Blasco Uzeda e del duca d’Oragua.
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