Musica L'album era stato registrato nell’estate del 2020 a Trecastagni con una band di amici catanesi, ed il 14 febbraio, pubblicato dalla Org di Los Angeles, esce intanto sui canali digitali in attesa dei vinili che arriveranno a fine anno. Il nuovo progetto discografico segna la svolta del chitarrista e cantante catanese, musicista diventato americano per scelta da quando, nel 2016, si è trasferito a Memphis: «Posso dire ormai di far parte della comunità musicale di questa città»
Il concept di quest’album era nato nell’estate del 2020 nella sua Sicilia, ed oggi “Take it away” è realtà. Pubblicato dalla etichetta Org di Los Angeles, esce intanto sui canali digitali il 14 febbraio, giorno degli innamorati, il nuovo progetto discografico del chitarrista e cantante catanese Mario Monterosso, musicista diventato americano per scelta da quando si è trasferito a Memphis, Tennessee, la città dove Elvis Presley, il futuro “king of rock’n’roll”, sbocciò con i suoi primi singoli pubblicati dalla Sun Records di Sam Phillips. E dove resta la “reggia” di Elvis, Graceland, mausoleo di un uomo che cambiò i costumi del Novecento.
Con Mario ci eravamo lasciati un anno e mezzo fa a Trecastagni, nella casa di famiglia durante quella che si sarebbe rivelata una lunga sosta “siciliana” (8 mesi, imposti dai limiti ai voli internazionali dettati dalla pandemia) nella sua nuova dimensione di “emigrato” per scopi artistici. Mario Monterosso, oggi un “ragazzo” di quasi 50 anni (li compirà il 10 ottobre), con il rock’n’roll e il blues nel cuore da sempre, nel 2016 aveva lasciato Catania per Memphis, inseguendo il suo sogno americano, quello della musica. E Memphis non ha tardato ad accorgersi di lui, l’italiano con il rock delle radici dentro, come ben racconta il libro “Le sei corde dell’anima”, un romanzo di Alessandra Tucci (Ctl Livorno editore) che parte dalla vita vera di Mario per raccontare, in maniera romanzata, un sogno che ha tutti i presupposti per avverarsi. Perché Monterosso è sì un sognatore che non sta, però, con le mani in mano, anzi…
Quei mesi etnei del 2020 servirono a Mario, oltre che a consentire l’ultimo saluto all’amata madre Angelina, anche per concepire quest’album strumentale, fatto di brani propri e grandi cover. Un album emozionale, fatto per stare insieme, a bere e ballare, per godersi il momento: dopo tutto “take it away” nello slang americano della musica vuol dire “dai, suona”, senza pensarci su più di tanto. “Take it away” è una raccolta di canzoni dove per una volta la voce viene messa da parte per far cantare gli strumenti.
Per quella missione, per lui molto importante, Monterosso a Trecastagni aveva chiamato a raccolta gli amici musicisti catanesi di cui si fidava di più, il bassista Marco Carnemolla, il percussionista Francesco Bazzano, il batterista Angelo Puglisi e il pianista Dario Finocchiaro e nel salone della antica casa di famiglia aveva messo su, tra carte da parati e mobili d’epoca, uno studio di registrazione artigianale che fu affidato ad un altro grande amico dei suoi anni romani, l’ingegnere del suono Matteo Spinazzè che portò a Trecastagni l’armamentario dei suoi microfoni vintage perché l’obiettivo era quello di realizzare un album strumentale dalle sonorità molto Sixties. Alla band di base si sono aggiunti Chiara Navarra al piano in “Maria Elena”, Alberto Asero al vibrafono su “Far Away Love”, Marina La Placa al theremin in “Without You” e Francesco D’Agnolo al synth su “Take Your Train”.
Ed eccolo oggi “Take it away”, un album imprescindibile come dice l’amico e mentore Tav Falco, il leader dei Panther Burns, musicista italo-americano con cui Monterosso suona da anni, che ha regalato una perla parlata sul brano “Midnight in Memphis”: “Ti esorto a mettere le cuffie e dare un ascolto serio a questo album… – scrive Falco sui social -. Mentre sei nelle tue modalità di ascolto e meno te lo aspetti, potresti ritrovarti a ballare. Sì, ballare. Nelle parole immortali di Samuel Beckett: Prima balla. Pensa dopo. È l’ordine naturale… Brani eccezionali eseguiti dal furore eroico della chitarra Gretsch di Mr. Monterosso. Se sei un’emittente, esorto a trasmettere questi brani alle onde radio, per evitare che il tuo pubblico sia privato di tonalità lussureggianti e inaudite. Se sei un medico, prescrivi questo disco per i tuoi pazienti malati e in difficoltà in modo che possano trovare sollievo e conforto… Se sei un amante della musica, vai a prendere questo album e tieni il suo gemito armonioso vicino al tuo cuore mentre ondeggia e batte al ritmo del tuo”. E Tav Falco è l’unico cui è concessa la parola in questo album, una parola parlata, non cantata, sul blues “Midnight in Memphis” (titolo che è un chiaro omaggio all’omonimo album live di Falco e i Panther Burns del 1990) dove Falco dice della città: “Metropoli del centro-sud, città di confine, del culto dei morti, e del blues”.
Ed eccoli i 12 brani. “The Ballad of Zorro”, un omaggio tra rumba e tex-mex ai fratelli Guido e Maurizio de Angelis, gli Oliver Onions, autori di grandi colonne sonore, tra cui “Zorro” del 1975 di Duccio Tessari con Alain Delon. Nell’anima latin dell’album “Dreaming Tomorrow” è un tango ruffiano mentre “Apache” è una cover del surf degli Shadows. “Far Away Love” è swing latino perfetto per il giorno di uscita dell’album mentre “Dancing in My Room” ribadisce il legame forte col “criminal tango” che tanto piace anche all’amico Tav Falco che ci mette lo zampino nel blues “Midnight in Memphis” col suo recitato narrativo sul mood della città a mo’ di dj radiofonico. “Without You” è una ballad dei cuori spezzati impreziosita dal theremin di Marina La Placa. “Miles of Bad Road” segna il legame di Monterosso con il genere Americana, tra blues e Honky Tonk mentre “Take Your Train”, folle come un treno in corsa, invita alla danza. Ancora ritmi caraibici con il mambo di “Alicia Drive” mentre “Maria Elena” cover della hit dei Los Indios Tabajaras ci rimanda al mondo fumoso del night club della Dolce Vita. Chiude “Driving to California”, l’unico rock’n’roll dell’album. E per uno che vive a Memphis era il minimo.
Un anno e mezzo fa le registrazioni, ora finalmente la pubblicazione. Questo disco ora deve girare. E un video di lancio di uno dei brani ce l’hai?
«Certo, ai live ci sto pensando. A me piacerebbe girare con i ragazzi di Catania, il gruppo che ha suonato nel disco, anche qui in America. Non penso, però, che possa accadere prima di fine anno, perché al momento i voli con l’Europa ancora non sono tornati alla normalità. Mi piacerebbe pensare anche un tour europeo tra Italia e Spagna. Un video ce l’ho. Mentre ero a Catania l’amico Fabio Abate (il cantautore ndr) ha girato le riprese per il video de “The ballad of Zorro”».
Ma la “tua” Memphis non ha ti ha chiesto di suonare questo nuovo album?
«Qualche richiesta in effetti c’è stata. Ora a me di suonare l’album in tour con i musicisti americani non andrebbe ma so che alcune date qui in America mi aprirebbero più strade anche in Europa, ed avendo alcune copie dell’album in cd – in attesa dei vinili che mi dovrebbero arrivare per fine novembre, per il Black Friday -, la cosa sarebbe fattibile. Ho un buon contatto anche in California, e l’atmosfera generale West-Coast dell’album mi aprirebbe delle strade. Certo, se Tav, grande amico e mentore da anni, che ora vive a Bangkok, tornasse, come era previsto, a Memphis nei prossimi mesi allora sarebbe tutto più semplice».
Uno sponsor di peso come Tav è sempre fondamentale negli States…
«In America è importante essere “sponsorizzati” da nomi importanti. Adesso, per esempio, è scaduto il mio rapporto burocratico con gli Ameripolitan Awards di Dale Watson, che avevano garantito per il mio visto artistico nel triennio 2019-2022. La nuova domanda, però, l’ho voluta presentare da solo perché ringrazio sempre tutti ma d’ora in poi voglio essere un po’ più libero. E sono in attesa a breve della nuova “green card”».
Al di là dell’uscita dell’album, che periodo è adesso per te?
«Non ti nascondo che non appena sono tornato dall’Italia, dopo 8 mesi, temevo di aver perso un po’ la presa sulla città. Gli americani non si fermano mai e vanno sempre avanti, quindi temevo di essere un po’ dimenticato. Fortunatamente, anche qui, in questo anno e mezzo, non è successo granché. Quindi ho ripreso a lavorare con Dale Watson, abbiamo registrato due dischi quando sono rientrato, uno strumentale ed uno di Honky Tonk e country. Con Dale la scorsa estate ho suonato al Levitt Shell, il parco dove Elvis si è esibito per la prima volta».
Nuove collaborazioni?
«Ho incrementato il rapporto con il pianista Jason D. Williams, che pare che sia un figlio non riconosciuto di Jerry Lee Lewis. Ora, la somiglianza fisica c’è pure e Jason D. non imita Jerry Lee: voce e modo di suonare alla Jerry Lee sembra gli appartengano come cosa di famiglia. Hanno pure suonato insieme e Jerry Lee, che ora ha quasi 90 anni, ci scherza su questa cosa. Con Jason D. abbiamo fatto tante cose, abbiamo pure registrato un doppio album – tre i brani che ho scritto per lui -, che uscirà a breve. Con lui a dicembre ho suonato al Liberty Bowl, una specie di Super Bowl degli universitari, allo stadio di Memphis. Lì c’era la quintessenza dell’America, un evento di sport dove lo sport è solo una minima parte di uno show pazzesco. E con Jason D., in apertura ai Los Lobos, quelli de “La Bamba”, ho suonato alla Surf Ballroom a Clear Lake nell’Iowa, dove nel 1959 morì in un incidente aereo Buddy Holly. E ora il 4 marzo con Jason D. suonerò al Grand Ole Opry di Nashville, il vero “teatro dell’opera” del country che ha visto suonare tutti i più grandi. E poi suono molto di più a Memphis come Mario Monterosso».
Così come il libro “Le sei corde dell’anima” della Tucci racconta nei primi tempi del tuo arrivo in città…
«Sì, adesso i club mi chiamano e la cosa mi molto piacere. Suono in quartetto, talvolta siamo in 5 se voglio aggiungere un sax. Tendenzialmente cerco di suonare con gli stessi musicisti ma qui i turnisti suonano tantissimo e non è sempre facile trovarli liberi. La cosa buona è che posso contare su due tre musicisti ottimi per ogni strumento».
C’è qualcuno di questi musicisti che ti senti più vicino?
«Il quartetto che ha suonato nel disco strumentale di Dale Watson da lui è stato ribattezzato The Memphians, anche se nessuno di noi è di Memphis, e ormai siamo una sorta di band. Con me il contrabbassista Carl Caspersen, originario della California, il batterista Danny Banks, ex bimbo prodigio di Boston, il pianista T. Jarrod Bonta è di Austin, Texas. Quando suoniamo insieme cantiamo tutti. Carl ama molto Sting e Lyle Lovett, T. J. Mi ricorda molto J.J. Cale, Danny è giovane e spazia dai Mavericks a Elvis. Io sfrutto la mia italianità e passo dal repertorio Louis Prima a Dean Martin. Il venerdì, poi, suono spesso nei burlesque show. E qualcosa si sta muovendo e non escludo che possa nascere qualcosa anche con Priscilla Presley…».
…la moglie di Elvis…
«Sì. La cosa bella dell’America è che i tuoi sforzi sono poi ripagati da qualcosa in cambio. La mia posizione sta crescendo. Non bisogna avere fretta».
E a proposito di ex mogli d’arte, Christine Schmidt Setzer, ex moglie di Brian Setzer degli Stray Cats, firma il nuovo book fotografico. Quindi non c’è più l’elemento sorpresa per l’italiano col quid americano dentro, come descritto nel libro della Tucci. Ma adesso per loro sei ancora l’italiano che suona bene il rock’n’roll o Mario Monterosso e basta?
«Certo, dopo 5/6 anni, posso dire ormai di far parte della comunità musicale di Memphis. Recentemente mi hanno chiamato in giuria per un contest di song writing, organizzato dal Rock’N’Soul Museum, poi sono stato in giuria in un contest di blues. Qui queste cose valgono perché viene riconosciuta la tua preparazione. Il fatto di essere italiano ovviamente nessuno lo può cancellare ma Dale ormai mi presenta come “the sicilian memphian”».
E non “momphian”… Ma questa citazione/battuta di David Simone Vinci la possono capire solo i catanesi…
«Sai quante volte c’ho pensato a questa cosa (ride di gusto): ma tu u sai cu su i cchistiani?. Scherzi a parte, per loro sono “Mario Monterosso, the italian guitarist living in Memphis”. Anche se alla fine sempre un emigrato sono per loro…».
…emigrato per la musica, però, e mi pare che ti tengano bene in considerazione. Ma sei l’unico musicista italiano di Memphis?
«Direi di sì. A Memphis gli italiani non sono tantissimi, tutti di seconda o terza generazione. Di prima generazione in pratica ci sono solo io. La considerazione di me sta crescendo, ora ho iniziato una collaborazione col bassista Scott Bomar, uno che ha pure vinto un Grammy Award per una colonna sonora. Certo, il fatto di essere considerato uno che lavora per la comunità musicale di Memphis, anche come produttore, è una cosa stimolante».
E la comunità musicale nera ti conosce?
«La gran parte dei musicisti neri fanno parte della scena rap che è molto forte ma è un mondo che ammetto di non conoscere. Tra i musicisti neri con cui suono c’è il batterista Rodd Bland, figlio del famoso cantante blues Bobby “Blue” Bland. Ho suonato qualche volta anche con l’armonicista blues Blind Missisippi Morris, un omone che è proprio l’immagine classica del suonatore di blues. Comunque quelle volte che mi rapporto con i musicisti neri mi accolgono sempre col sorriso».
Ma torniamo per un attimo alla tua Catania, e alla tua storia nella scena rock’a’billy degli Anni 80. La storia ritorna e i Boppin’ Kids sono tornati insieme…
«Avevo detto a Orazio (Grillo, in arte Brando, ndr) che una cosa bella sarebbe se loro tre (gli altri due sono Blasco Mirabella e Emilio Catera, ndr) venissero qui a Memphis per registrare un disco alla Sun. Un’idea che avevo lanciato anche a Renato (Zappalà, in arte Zapato ndr): con Carmelo (Quartarone ndr) e Silvio (Chiodo) come Rhino Rockers, gli ho detto, venite qui e registriamo un disco alla Sun, al di là di qualsiasi aspettativa, semplicemente per chiudere un percorso in nome dei miti musicali con cui siamo cresciuti, miti ai quali, in questo momento, sono più vicino io. A me piace l’idea di produrre nuova musica che possa restare “in eterno”. Con Renato, Carmelo e gli altri abbiamo tante di quelle storie che qualcuno potrebbe mettere nero su bianco per noi mentre noi possiamo metterci la musica suonata e filmata da consegnare ai posteri. Ma i siciliani sono sempre un po’ “culo pesante” e non credono che certe cose si possono fare davvero».
E allora, per salutarci, “plug in… & take it away”, per tornare al titolo del tuo album, attacca la chitarra e suona, caro Mario. Dove il prossimo concerto?
«Stasera al DKDC (Don’t Know, Don’T Care) qui a Memphis, con Danny Banks alla batteria, e Scott Bomar al basso. E non vedo l’ora che arrivi il 4 marzo per il concerto al Grand Ole Opry di Nashville con Jason D. Williams che ha dovuto aspettare anni per suonarci. La musica è la grande motivazione della mia vita e la cosa mi eccita molto. E qui me la metto io l’etichetta di italiano e siciliano, orgoglioso di arrivare ad una meta molto importante per il mio percorso musicale».
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