Sicilians Il regista laziale, artista ed intellettuale che spazia dal teatro al cinema, sabato 30 luglio al Premio Messina Cinema ritirerà un premio per sé alla carriera e ed una ala memoria a Andrea Camilleri, negli anni suo maestro, poi amico ed anche suocero e nonno delle sue figlie: «In Accademia sperimentava su di noi nuovi modi di 'raccontare'. Quando penso ad Andrea penso ad un uomo curioso che ha guardato la vita senza paraocchi, era interessato a tutto»
«Sono tre anni che Andrea ci ha lasciati. E’ uscito di scena per recitare il suo ultimo spettacolo ad una platea molto particolare: gli dei dell’Olimpo. Ha, in verità, voluto chiudere il cerchio con una vicenda biblica “Autodifesa di Caino” da lui scritta e messa in scena. Ha voluto chiudere narrando il primo fratricidio della storia dell’uomo, unendo il mito, il sacro,la letteratura, l’uomo appunto. Avrebbe dovuto debuttare al teatro di Caracalla. Lo immagino fra gli dei a raccontare storie di questa terra, quello che sempre ha fatto durante tutta la sua vita, come in un eterno “cunto” siciliano. In questi tre anni ho tenuto i ricordi per me, le persone care come mio padre, sono dentro di me e così Andrea. Non ho partecipato ad alcuna manifestazione pubblica che lo riguardasse».
Il regista Rocco Mortelliti, artista ed intellettuale che spazia dal teatro al cinema, inizia così a raccontare il suo maestro ed amico Andrea Camilleri. Camilleri non è stato solo l’inventore del celebre commissario Salvo Montalvano, l’autore di raffinati romanzi storici, il creatore di libri che hanno spaziato dal genere giallo a quello fantastico, dalla saggistica alle biografie di personaggi, ma anche un uomo di teatro e di televisione, un professore all’Accademia Nazionale di Arte drammatica. In questa ampia conversazione Mortelliti racconta e si racconta, parla delle sue opere da regista teatrale e cinematografico. Mortelliti, che ha portato sul grande schermo un romanzo storico di Camilleri, parla di cultura e dimensione umana. Dalla sua memoria riaffiorano pensiero ed emozioni che condensano ricordi del “maestro”.
Come nacque il suo dialogo con Andrea Camilleri? Come era da “professore”?
«Andrea Camilleri era in commissione di ammissione all’Accademia nazionale d’Arte drammatica ‘Silvio D’Amico‘. Erano anni di contestazione, tra il 1977 e il 78. Durante questo turbolento periodo, Andrea , che era l’insegnante di regia, decise di tenere un laboratorio di drammaturgia con gli allievi del primo anno. Cominciò così un forte rapporto con lui denso di emozioni. Dovevamo essere autori di noi stessi attraverso la creatività e lo strumento ‘voce – corpo‘. Dovevamo costruire micro storie – improvvisando – compiendo un percorso circolare. Inizialmente la cosa per molti sembrava facile, ma era invece molto complicata, all’interno del percorso, bisognava sviluppare una storia che avesse un inizio uno svolgimento e una fine, per chiudere il “cerchio”. Mi appassionai moltissimo a questo stimolante metodo, perché ti permetteva ogni volta di sperimentare sempre nuove situazioni senza quasi rendersi conto di ciò che si riusciva a ottenere, a volte il risultato sorprendeva persino noi. Era quello che Andrea voleva ottenere: riuscire a raccontare storie con linguaggi diversi. Mi resi subito conto che lo stesso Andrea stava sperimentando su di noi e su se stesso nuovi modi di ‘raccontare’».
Vi è un altro aneddoto curioso che vuole svelare ai lettori?
«Una volta, durante una prova, un attore declamò una battuta del testo teatrale secondo canoni stabiliti, Andrea lo fermò subito mettendo in discussione il tono di quella battuta: “Oppure?” esclamò Andrea. L’attore ripeté la battuta con tono diverso, Andrea lo fermò nuovamente: “Oppure?”. A farla breve gli chiese una quantità di “oppure” che mandò in crisi l’attore. Ma era semplicemente un modo per farci capire le possibilità di interpretazione che suggeriva quella specifica battuta».
Dal rapporto maestro-allievo alla dimensione della parentela…
«Ricordo quel periodo con Andrea molto costruttivo. Le nostre storie ce le siamo continuate a raccontare tutti i giorni a casa, è diventato il nonno delle mie figlie, e ogni volta venivano descritte con la figura del “cerchio”».
Può approfondire il passaggio sul “cerchio”?
«In un romanzo Andrea decide di non chiudere il “cerchio”, lascia un finale aperto come per dire al lettore “Ognuno se lo chiuda come preferisce”. Il romanzo è “La scomparsa di Patò”».
Lei è il primo regista in Italia e nel mondo ad aver transcodificato sul piano cinematografico un romanzo storico di Andrea Camilleri. Con il film “La scomparsa di Patò”, tratto dall’omonimo libro, ha portato Camilleri sul grande schermo ed ha avuto molti riconoscimenti in Italia ed all’estero, ed ha fatto conoscere altri aspetti della dimensione culturale camilleriana.
«Andrea Camilleri era sempre in continua sperimentazione. Andrea dipana la storia de “La scomparsa di Patò” solo attraverso articoli di giornali, dispacci e rapporti di polizia e carabinieri. Mi chese di farne un film. Nel romanzo non c’è alcuna descrizione né di personaggi né di ambienti, riuscii facilmente a descrivere ogni singolo personaggio e a caratterizzare tutti gli ambienti, siamo a fine Ottocento, alcuni luoghi della Sicilia sono ancora ben conservati. Andrea mi diede una grossa responsabilità, era il primo film per il cinema che veniva realizzato da un suo romanzo. Il romanzo ha un finale aperto, nella mia sceneggiatura lascio lo stesso finale. Sentivo però dentro di me che volevo chiuderlo, sicuramente come ogni lettore ha fatto, io volevo chiuderlo nel film, stabilire come erano effettivamente andate le cose e che le indagini del carabiniere e del poliziotto erano giuste. Senza dire niente a nessuno, durante le riprese, convoco gli attori coinvolti e giro il finale che avevo in testa, avevo la possibilità così di chiudere il “cerchio”, non sapevo ancora se avrei montato quella scena. Dopo mille dubbi tra me e la produzione e la dirigente Rai, decisi di montarla, vedevo ormai il mio film con quel finale. Appena feci vedere il film ad Andrea mi disse: “Hai chiuso il cerchio”. Ad alcuni personaggi del film, laddove Andrea li faceva parlare ho lasciato le frasi originali del libro, quando il poliziotto e il carabiniere interrogano un probabile assassino di Patò, un contadino più vicino alla bestia che all’uomo, il villico per dimostrare il suo alibi dice testuali parole : ‘Iu lo vuliva ammazzari a Giuda, ma odori di fimminia mi deviò’. Nel romanzo Andrea liquida la testimonianza della “buttana” con una semplice frase, ‘la buttana confermò’. Esposi ad Andrea la mia idea, avrei voluto vedere quella buttana, volevo sentirla parlare, anche una sola frase, chi poteva andare con una bestia del genere! Mi rispose: “Fallo e falla vedere pure a me”. E’ diventata una scena cult del film, Andrea fu entusiasta del personaggio».
Può raccontarci sinteticamente l’esperienza de “La Strategia della maschera”?
«Ci sono troppi ricordi dentro la mia memoria, ci vorrebbero settimane per raccontare. Quando penso ad Andrea penso ad un uomo curioso che ha guardato la vita senza paraocchi, era interessato a tutto, infatti era un uomo coltissimo. Volle provare anche la recitazione, recitò con alcuni registi per la televisione, con me fece un archeologo nel film ‘La strategia della maschera’, il film nacque sempre con una chiacchierata. Volevo raccontare la storia, forse un rapporto tra nonno e nipote, mi è mancata la figura del nonno. Inizialmente lo chiesi a Marcel Marceau, ci incontrammo, purtroppo i suoi impegni di lavoro non coincidevano con le riprese del film. Mi venne naturale chiederlo ad Andrea, senza neanche pensarci mi disse di si».
Può dirsi che già nella sua attività teatrale e da dirigente Rai Camilleri era un intellettuale poliedrico ed eclettico?
«Andrea amava sperimentare, far convivere anche generi diversi. Una volta lo aiutai a realizzare alcuni video che gli servivano per un spettacolo teatrale: “Pena di vivere così” mi pare fosse questo il titolo, si trattava di alcune novelle di Pirandello, Andrea volle avere più contaminazioni in quello spettacolo teatrale. Anche come dirigente Rai e regista era innovativo, oltre a occuparsi del teatro su Rai Due, da Fo a De Filippo, fu il primo a portare in Italia il grande drammaturgo irlandese Samuel Beckett. Andrea mise in scena “Finale di partita” con Renato Rascel e Adolfo Celi, guarda caso realizzò una scenografia circolare, la fece costruire dal suo grande amico scultore Angelo Canevari, era ancora una tv in bianco e nero, lo spettacolo televisivo era molto suggestivo. So che Beckett ringraziò Andrea per quella messa in scena».
Per Camilleri il teatro era cultura e filosofia esistenziale, dimensione ampia e multidisciplinare. Ed era un grande lettore. Può narrare una delle varie letture originali che le consigliò?
«Una volta Andrea mi disse di recarmi alla biblioteca Nazionale di Roma e cercare un autore che poteva interessarmi, un certo Charles Cros. “E chi è?” chiesi. Andrea rispose: “Tu cercalo, fotocopia il testo e leggilo”. Così feci. Mi resi conto che nessun teatrante conosceva Cros: ma dove diavolo lo aveva letto, quando, perché? Neanche glielo chiesi ad Andrea, rimasi folgorato dai monologhi di questo autore surreale. “Mettilo in scena” mi disse Andrea. Vi racconto brevemente la trama. Un uomo rincasando a casa batte la testa. La mattina si sveglia e si trova con la testa girata, quindi non riesce ad andare nella direzione che desidera, il corpo va sempre dalla parte opposta. Ci impiegherà anni a raggiungere il suo ufficio di impiegato, farà semplicemente il giro del mondo, giungerà vecchio e stanco in un luogo che ormai non esiste più, il mondo è cambiato e molti fabbricati sono stati sostituiti da altri. Anche qui Andrea mi propone un messa in scena circolare, mi ricordò subito il nostro laboratorio in accademia. Confesso che feci molta fatica a metterlo in scena nonostante la mia abilità di mimo, non vi sto a spiegare che tecnica usai per girare la testa dalla parte opposta, feci una serie di piazze con quello spettacolo. Insomma Andrea è stato sempre vicino alle mie imprese teatrali, quando vinsi il premio IDI – esisteva un premio sul testo teatrale – il testo “Soltanto un naso rosso” fu pubblicato dalla rivista “Il Sipario”. Andrea volle farmi la prefazione, la intitolò “Un poeta che non fa poesia”».
Dal cinema al teatro ed alla musica, dall’originale storia del pappagallo “Pimpigallo” al cunto musicale “Maruzza Musumeci”. Un itinerario dalla dimensione esistenziale al genere camilleriano del “fantastico”. Può dirsi che lei ha realizzato e continua ad attuare un viaggio multidimensionale e multimediale nell’opera, nel pensiero e nella vita di Andrea Camilleri?
«Gli ho voluto dedicare anche un favola in musica, tratta il suo rapporto con un pappagallino giallo che si era presentato nel suo terrazzo e Andrea lo aveva ospitato in casa sua, ogni mattina prima di andare a lavoro Andrea passava a salutarlo, il pimpigallo (così fu battezzato) lo ascoltava ammirato. Un giorno il pimpigallo iniziò a parlare con la stessa voce di Andrea, così ogni mattina i due si facevano grandi chiacchierate. Peccato che non ho mai registrato la sua voce. Fu il primo a imitare Andrea. Anche Alessandra, la mia primogenita, ha scritto testi teatrali, anche lei come me li ha elaborati con il nonno, li ha messi in scena, uno di questi è diventato un film, Andrea è riuscito a “vedere” l’opera prima -‘Famosa’- di sua nipote. Arianna, la mia secondogenita, come dice lei stessa, ha prestato i suoi occhi per scrivere le sue ultime opere, e lo ha assistito alla messa in scena di “Autodifesa di Caino”. Confesso che mi commuove pensare che un piccolo seme Andrea l’ha lasciato alle mie figlie che vogliono anche loro esercitare la professione di ‘raccontatore di “storie”».
Lei è impegnato nella valorizzazione della memoria di Camilleri, vi sono altre opere cinematografiche e teatrali alle quali sta lavorando?
«Forse ho voglia di raccontare ancora Andrea attraverso i suoi romanzi, anche in teatro, oltre che al cinema. Ci sto pensando con Alessandra. Ma per ora non dico nulla. Ho capito che Andrea ha fatto tesoro di tutte le esperienze per raccontare liberamente le sue storie, sino a recitarle, in fondo lui che è stato un allievo del più grande maestro di teatro del 900, Orazio Costa, aveva già capito che per scrivere avrebbe dovuto seguire un percorso artistico fondamentale: il teatro».
Sabato 30 luglio ritirerà in una manifestazione culturale “Messina Cinema 2022” un premio alla carriera e il premio alla memoria dedicato ad Andrea Camilleri che lei porterà al Fondo Camilleri di Roma. Qual è stata la sua prima sensazione quando le è stato comunicato?
«Il premio che la città di Messina conferisce a me alla carriera e ad Andrea alla memoria mi ha fatto riflettere ancora su questa “circolarità”. L’anno scorso il premio fu dedicato a Nino Manfredi, quest’anno ad Andrea Camilleri. Bene, a sedici anni mia madre mi portò da Nino Manfredi, paesani tutti e due di Castro Dei Volsci (provincia di Frosinone), volevo consigli sull’Accademia, che lui stesso aveva frequentato, Nino mi disse di andare a nome suo da Orazio Costa. Andai con mamma, ero ancora minorenne, Orazio fu gentile mi diede consigli preziosi, entrai dopo due anni in Accademia e conobbi Andrea. Ma se mia madre non mi avesse portato da Nino, avrei mai avuto questa vita? Ma soprattutto avrei mai avuto le mie figlie che amo più di me stesso? Non ho mai creduto nel destino, ma ora la domanda me la faccio: ‘E’ già tutto scritto?’. Alla risposta ci penserò un giorno. Grazie a Roberta Manfredi e Alberto Simone che mi hanno permesso di chiudere anche questo cerchio. Ringrazio la direttrice Helga Corrao del Premio Messina Cinema. Ora tornerò a preparare il mio prossimo film dal titolo “Il lupo e la steppa” prodotto dalla Dioniso film Production. Che strano, Dioniso è un personaggio che io ho interpretato fino allo scorso anno nei teatri greci siciliani in mezzo alla minaccia del virus che ha messo in ginocchio noi teatranti…».
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