Libri e Fumetti Dalla pittura al silenzio per tornare con una innovazione: l'antologia di racconti "Migrazioni" (A&B editrice). Per il poliedrico psichiatra madonita migrare non è solo spostamento dai luoghi ma è movimento interiore, tra storia, divertimento, esaltazione, melanconia e amore: «Dentro l’apparente parabola della semplicità, vi è un messaggio nascosto che, coloro che vogliono, possono individuare tra le righe»
Non è nuovo a scoperte e ricerche in ambito storico letterario, il poeta, saggista e scrittore Carmelo Zaffora il quale torna negli scaffali delle librerie con “Migrazioni” (A&B Editrice, pp. 161, € 16,00), un libro dove le vicende contenute tendono a dimostrare che niente è scritto e tutto si può rimescolare: dalla vita ai sentimenti, alle ascese, al destino e alla forza oscura che guida l’stinto e l’intelligenza di ognuno che danno diritto e chiarimento. Lo scrittore madonita, originario di Gangi, vanta, infatti, una produzione notevole avendo pubblicato numerosi libri di poesia e narrativa, tra cui il romanzo “Golem Siciliano” sulle comunità ebraiche esistenti in Sicilia fino al 1492; la silloge poetica “L’errando verso” del 2017, una raccolta di scritti che abbraccia trent’anni di viaggi in giro per il mondo con prefazione di Suzana Glavas; “La finta macchia”, che annovera la prestigiosa firma di Dacia Maraini in prefazione e “L’Alibi, Sikanie Poleis, Ananke, Theophanie”. Il “piatto forte” che rimane è “Le confessioni di Abulafia – Vita di un Visionario“, potentissimo, e unico, romanzo, giunto alla seconda edizione, unico perché nessuno mai aveva dedicato al grande filosofo e mistico di origine ebraiche, fondatore della Kabbalah profetica che passò gli ultimi dieci anni della sua vita in Sicilia, un romanzo, tanto che è stato acquisito da numerose biblioteche del mondo come Yale, Harvard, Philadelfia, Monaco di Baviera, Berlino, Francoforte, Zurigo, Madrid, Toronto, Gerusalemme, New York, Cincinnati, Waltham MA, Roma.
Contenente dieci storie che affrontano il tema della sfida umana dell’andare oltre, Zaffora punta sulla spiegazione del termine “migrazione”, sicuramente come compendio di allontanamento dal proprio luogo di origine, ma anche desiderio di “forzare” quello che sembra tutto scritto e tutto definito, opponendosi pertanto a quel principio contenuto in un vecchio proverbio africano che lo stesso Zaffora, incontrato in un caldo pomeriggio settembrino, ci riporta: «“sebbene tu ti alzerai all’alba il tuo destino si è alzato un’ora prima di te”».
Ancora una volta si è scommesso e ancora una volta il successo è giunto: come nasce “Migrazioni”?
«La raccolta di racconti contenuta in Migrazioni nasce dall’esigenza di dare voce ad una metafora. Concetto, quest’ultimo, coniato da Aristotele il quale l’aveva definito come “l’intuizione di un’analogia esistente tra cose dissimili“. Migrazioni non è infatti soltanto sinonimo dislocazione spaziale, intesa come trasferimento da un luogo all’all’altro di un’umanità in cerca di un destino diverso e, forse, migliore. Ma come spostamento emotivo e circolare tra l’oggettività del mondo e la soggettività dell’individuo che si trova a vivere la propria personale vicenda esistenziale».
Stile nuovo, opposto al saggio, alla poesia alla sperimentazione: innovativo. Cosa l’ha ispirata?
«Vorrei premettere che l’arte del racconto presuppone limpidezza, brevità, intensità e conclusione. Nel racconto non ci si può allargare con eccesso di “cornici “ sfondo e descrizioni. Raccontare significa obbedire a canoni semplici come un inizio, uno svolgimento e una fine. Niente grasso alla letteratura, come aveva detto Hemingway. Riguardo allo stile nuovo vorrei precisare che scrivere è un mestiere che s’impara facendo. Proprio come se ci si trovasse in una bottega d’arte. Man mano ci si perfeziona, togliendo il superfluo, usando termini e lessico ben sistemati, scegliendo i personaggi delle storie come se si muovessero intorno a te e se ne ascoltassero stati d’animo e parole, sentimenti e drammaticità, euforia e abbattimenti. Per quanto concerne l’aspetto innovativo credo, per onestà intellettuale, che ogni forma d’arte è rifacimento. Ognuno di noi è debitore del passato e, per gli italiani, questo debito è fortemente vincolato dai giganti che ci hanno preceduto, con i quali ci piaccia o no, bisogna fare i conti. In Sicilia questa dinamica è ancora più vincolante se si tiene conto che solo nel secolo scorso quest’isola ha laureato due premi Nobel per la letteratura, senza escludere Empedocle, Sciascia, Consolo, D’Arrigo, Patti, Bufalino, Camilleri, Tomasi di Lampedusa, Brancati, Verga e tanti altri. Parlando dell’ispirazione io credo personalmente alle Muse. Sebbene anche questa sia una metafora. L’essere ispirati significa trovarsi in quelle condizioni mentali nel cui circuito s’incontrano sapienza, passione e creatività. Senza questi elementi sono convinto che sia impossibile creare qualcosa di artisticamente fruibile, accessibile, condivisibile e, perché no, universale. Quello che mi ha ispirato è il senso della storia umana che, in modo atemporale, unisce generazioni diverse e contesti apparentemente lontani. L’avventura, l’ignoto, la scoperta, il pagare di persona, la tenacia, l’avversione contro l’oblio di ogni cosa. Penso che tutto questo mi abbia dato la giusta ispirazione».
Lei utilizza un linguaggio forbito ma fruibile e comprensibile, accessibile a tutti. Quanto ai contenuti, parallelizzandoli con le precedenti opere, c’è una svolta importante. A cosa è dovuto questo cambio rispetto alle precedenti scritte nella forma del saggio romanzato o alle poesie?
«In letteratura, in generale, si corre il rischio di essere complicati e, spesso, intimisticamente ed eccessivamente cervellotici. E’ mia personale opinione che l’armonia è la tendenza a conciliare gli opposti (proprio come nel mito greco nel quale Armonia è la diretta discendente dal dio della guerra Ares e la dea dell’amore Afrodite). L’approdo ad una misurata e semplice eleganza di stile è il frutto di migliaia di libri letti e di autori digeriti o indigesti. Un noto scrittore italiano, qualche tempo fa a cui presentai un suo libro, disse che esistono persone che scrivono bene e non hanno niente da raccontare, altri che hanno tanto da raccontare ma non sanno scrivere. Ecco, a mio avviso, è su questa sottile linea di pensiero che bisogna accingersi quando si gettano le basi per un nuovo libro. La semplicità di stile, oltre ad avviare una giusta comprensione del testo, deve altresì contenere un linguaggio che possa riuscire ad incantare il lettore, proponendo in tutto questo la dimensione evocativa del racconto senza la quale si rischia di non centrare l’obiettivo a cui si tende quando si scrive qualcosa. Diverso è invece quando si verga un verso o si scrive un saggio. Lo strumento è lo stesso ma il genere musicale cambia».
Per gli eventuali scettici: cosa direbbe per consigliarne la lettura?
«Direi che una persona di cultura dev’essere sostenuta dalla curiosità del contenuto, altrimenti alla terza pagina si chiude il libro e non lo si riapre mai più. Il libro contiene dieci storie, alcune brevi, altre un po’ più lunghe. La lettura dev’essere una delle forme della felicità (citando Borges), non deve annoiare, non deve costare eccessiva fatica ma deve possedere quella cifra incantatrice che ogni buon racconto saprà veicolare. I racconti contenuti in questo libro non sono complicati, si leggono come si bevesse un bicchiere d’acqua, scorrono lisci e senza asperità».
Lei parla di migrazioni non solo come fenomeno sociale che da più di un ventennio in Italia trova fonte di discussioni anche tra le sedie parlamentari, bensì come evasione dal proprio mood interiore, dalla propria innocenza nella speranza di migliorare la propria vita. Che migrazioni sono le sue?
«Le migrazioni a cui faccio riferimento sono pezzi di storia di umanità dentro cui alberga la nostra coscienza collettiva, la nostra memoria, il flusso umorale degli antenati, l’evocazione di una sfida e di tante avventure accadute in tutte le famiglie italiane per generazioni. Non si può prescindere da tutto questo quando si narra qualcosa che ci riguarda così da vicino. Migrazione è anche trasferimento di qualcosa. Non soltanto come spazio oggettivo, ma anche come sentimenti ed emozioni che circolano dentro gli individui, in un flusso continuo tra il dentro di ognuno e l’oggettività del mondo che sta fuori, con le sue leggi, i suoi dettami, i suoi imprevisti, le sue sorprese. Queste sono le mie migrazioni».
Oltre all’ispirazione vi è stata una necessità per scrivere quest’opera che ha come fil rouge il concetto di allontamento per cause ad oggi non considerate quid migratori? Si pensi ad esempio alla storia narrata nel capitolo titolato “La verità“, un passaggio dall’edonismo alla commozione pura.
«Appunto per questo nel libro non parlo di “emigrazioni“ tout court, ma di dislocazioni affettive, impreviste, giocate dal destino, dalla buona o malasorte che sia, in cui la volontà personale si sfarina di fronte all’imprevisto e all’incompiuto. Nel racconto “La verità” è proprio questo che voglio narrare. Dove l’incontro fortuito getta i suoi dadi sul sentimento che, a sua volta, andrà ad annegare nell’oscurità dell’Oceano Atlantico. Senza ragione, senza calcolo, senza previsione, di fronte alle quali si può restare sconcertati proprio perché l’enigma del dopo non possederà mai la certezza di quanto possa realmente accadere».
Una domanda classica che ci interessa sempre: per chi ha scritto questo libro Carmelo Zaffora?
«Questo è un libro scritto per tutti, poiché tutti lo possono leggere. Non occorre possedere una preparazione specifica. E’ come se la voce di un rapsodo si mettesse a parlare, raccontando vicende e situazioni, modalità di esistere e semplici orditi, capaci però di catturare l’attenzione e di far viaggiare la fantasia a piacimento. Con l’aggiunta che, dentro l’apparente parabola della semplicità, vi è comunque un messaggio nascosto che, coloro che vogliono, possono individuare tra le righe».
C’è un messaggio filantropico e di allerta nel suo romanzo? Nel profondissimo “L’inganno sikano” c’è parso di coglierne senso…
«Il messaggio filantropico esiste, esso sottintende la sforzo di ogni essere umano contro l’oblio. Ricordare è far tornare a vivere, esercitare la memoria significa non perdere mai il legame con quanti ci hanno preceduto, nel tentativo di rinnovare l’immortale pianta dell’eredità ricevuta. La funzione di ognuno, a mio avviso, dovrebbe essere quella di non interrompere mai la catena della tradizione. Non tanto come nostalgia di un tempo che fu, ma come elemento sapienziale e di conoscenza che può, comunque, rendere gli individui migliori, grazie anche all’esperienza stratificata. E su questo principio oggi, grazie ad una corrente delle neuro scienze, l’Epigenetica, si perviene alla consapevolezza che niente viene perduto, se l’esercizio del ricordo viene allenato. Non tutti infatti conoscono la vicenda di Minosse e Kokalos, la fine di un regno potente che accade in Sicilia con l’inizio di una nuova era. Tutto giocato in questa straordinaria isola».
A proposito del racconto “L’inganno sikano”, la nota di apertura è allusiva a lei o a un “lei” immaginario che si ripropone nella narrazione storica?
«In verità devo ammettere che quanto è scritto nell’apertura del racconto riguarda me e la mia infanzia, i miei altipiani, le Madonie, le stagioni, le masserie e il paese di Gangi, vissuti tutti in prima persona. Credo molto nei simboli. Con i simboli gli antenati hanno voluto lasciare una messaggio, una traccia visibile che, non per tutti, necessita di essere decifrata. La Sicilia è piena di simboli, di segni, di testimonianze, di muti emblemi, di pietre, di parole e di silenzi. E’ li che alberga la storia parallela, quella non raccontata dagli egemoni vincitori. Per questa sopravvivenza ad oltranza esiste ancora la Via Minosse, il Minotauro seduto sul ciglio di una fontana nello stemma della città di Gangi, le corna del toro issate sui tetti delle fattorie. In tutto questo l’archetipo vive e sopravvive, contro tutte le stagioni e le generazioni, consegnando a chi da venire l’esempio di una storia che diventa, nel medesimo tempo, anti storia per l’eternità».
In “Migrazioni”, emergono, divertimenti, sorrisi, disperazione, piacere, storia, rapporto stretto con la terra, elementi tutti relegati verso l’idea di abbandono di qualcosa: c’è chi torna (Peppe delle cravatte, n.d.r.), c’è chi non torna a causa di un nubifragio, c’è la drammaticità di chi una professione la sviluppa da ignorante per poi far da accompagnatore alla morte (citando Avicenna, in epigrafe al capitolo “La dolce guarigione”), c’è chi viene colto dalla paranoia altrui (Kokalos dopo l’incontro con Sarpedonte davanti ai suoi commilitoni), c’è il depresso associato a un numero: questo è un libro sulla vita che sempre ci sorprende? «Certamente. Nelle filosofia greca si parlava di Ananke, quando si doveva affrontare il tema inspiegabile di qualcosa che accade fuori da qualsiasi volontà umana. Essa significa che vi è una necessità cosmica che continua il suo corso senza chiedere niente a nessuno. Esiste, vive, agisce, si perpetua, sorprende. Ecco che nella vita degli umani possono succedere cose imprevedibili e inattese, che si tratti di una guarigione misteriosa o di un incidente scampato, di un amore fulminante o di una scelta apparentemente casuale che, con effetto domino, coinvolge tutta la propria esistenza. Si può ammettere quindi che le sorprese non finiscono mai.»
La connotazione della sorpresa, sembra vertere verso un negativismo-realismo: in un modo o nell’altro o si vive di nostalgie e desideri irrealizzati o di accettazione dei fallimenti, che non sempre sono causa dei protagonisti. Cosa l’ha indotta a raccontare questa malinconica verità?
«Ciò che mi ha indotto ad affrontare questo tema è l’enigma con cui ogni persona deve fare i conti. Si può prevedere l’andamento economico di una nazione, la consegna di un’opera da realizzare, il decorso di una malattia conosciuta, l’orario di un treno, la fine di una relazione. Ma, al di la di tutto questo esistono condizioni dove niente è indovinabile. In quest’ottica la consapevolezza dell’incertezza è un refrain che accompagna ognuno di noi ed è inevitabile che questo stato d’animo generi una condizione di larvata tristezza o, se vogliamo dire, malinconia. Ovviamente quando si possiede un senso reale delle cose del mondo».
Dell’entusiasmante incontro con Carmelo Zaffora, che svolge la professione di psichiatra a Catania, potremmo raccontare anche le emozioni che ci ha fatto vivere nelle tre ore trascorse, per scoprire, seppur qualcosa sapevamo, che quest’uomo nato nella Sicilia occidentale è anche un pittore che vanta al suo attivo molte mostre personali in Europa ed Italia e molte delle sue opere si trovano presso collezioni private in USA, Giappone, Svizzera, Israele, Francia, Italia, Sudamerica, monito probabilmente dell’ambientazione temporale anche dei racconti di “Migrazioni”, che si muove lungo un arco di tempo che va dalla fine dell’egemonia minoica, con la morte di Minosse in Sicilia, alla vana ricerca del proprio artefice Dedalo, fino ad un servizio di psichiatria dei giorni nostri, passando per un famoso medico agrigentino del Medioevo che divenne così importante che Carlo d’Angiò lo incaricò di tradurre dall’arabo il “Libro delle Guarigioni” di Avicenna, fino ad un viaggio attuale, per amore, in Portogallo e il declino di un rigattiere miope che s’innamora di una maga dagli occhi celesti. All’arte, alla cultura, alla scienza: la Sicilia non manca di ergersi a maestra assoluta. Zaffora ne è esempio!
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