Blog Con la primavera mi sveglio felice, e siccome è successo anche oggi, che è venerdì e dunque il gaudio è enfatizzato, ho buttato giù una “top nine” di motivi che rendono (udite udite!) piacevole la mia vita a Roma
Quelle mezze stagioni che non ci sono più tirano fuori il meglio di me. Sì, ho anche qualche pregio, oltre a tutto il resto. E in primavera e in autunno lo sento di più. In Sicilia è tutto talmente accecante, il mare è così presente che la percezione del passaggio tra una fase e l’altra non si avverte troppo. Almeno, per me è sempre stato così. Qui no. C’è un raggio di sole nel weekend e stanno tutti là, famelici di aria, sdraiati in qualche villa. Pure io vado a spaparanzarmi sui prati, tastando bene il terreno dove stendo il plaid, per colpa della paura delle siringhe che mia madre mi ha instillato quando ero piccola (c’è stato un tempo in cui anche io sono stata piccola, fisicamente compatta in senso volumetrico). A giudicare dal pensiero della mia genitrice, sembrerebbe che negli anni ’90 i drogati andassero con dei cannoni appositi a sparpagliare migliaia di siringhe infette nei prati e nelle spiagge che nemmeno le damigelle coi petali di rosa ai matrimoni. Ad ogni modo, io zompetto per un po’ nell’area che le mie membra andranno a occupare, spalmo per bene il plaid e mi fingo morta per un po’. Di solito la mia quiete termina quando l’umido mi entra nelle ossa, mi duole il collo per la posizione infelice o sento un insetto ronzarmi vicino: in ogni caso, lo capite da voi, la mia comunione dannunziana con la natura termina presto. Tornando alla primavera. Mi sveglio felice, e siccome è successo anche oggi, che è venerdì e dunque il gaudio è enfatizzato, ho buttato giù una “top nine” di motivi che rendono (udite udite!) piacevole la mia vita a Roma:
– gli alberi che incorniciano il cielo azzurro su via Gregorio VII, da sotto casa mia fino alla metro;
– la tratta di metropolitana tra le fermate Lepanto e Flaminio: aperta sul Tevere, mi ricorda che c’è tanto altro, fuori dal lombrico che mi porta a lavorare;
– il caffè di Castroni, e tutto quello che hanno là dentro: marmellate, cioccolato, caramelle, cannellini, confetti, frutta secca, cose commestibili dall’Italia e dal mondo. E poi c’è un impiegato che mi chiama “signorina” anziché “signora”, ragion per cui gli sarò eternamente grata;
– i quartieri Monti e Trastevere, con la loro edera, le imposte e i vasi di fiori, la luce e le stradine dissestate, i gradini e la struggente delicatezza dell’intonaco giallo;
– la focaccia, ma loro la chiamano “pizza”, con prosciutto crudo e fichi;
– il Lungotevere. All’inizio della mia permanenza romana fantasticavo di andarci a correre, nella parte bassa, proprio radente all’acqua, in una sorta di riproposizione del lungomare di Torre Archirafi. Poi un collega, venuto a conoscenza dei miei propositi, m’illuminò: “Ahò, vedi che ce stanno solo nutrie e sorci. E se ce vai de sera te violentano pure”. Aver cara la pelle, insieme ad una innata pigrizia, sono diventate le mie scuse auto-assolventi più gettonate.
– il Gianicolo: un panorama che ti fa ringraziare di essere vivo per poterlo guardare. Di giorno, quando i castelli romani sono nitidi. Di notte, quando il muretto e una birra lo rendono il posto migliore di tutta la Capitale;
– i tassisti. Su di loro potrei scrivere migliaia di battute: sono lo spaccato più autentico di questa città, forse di tutte le città. Vivono sulla strada, stanno tutto il giorno a contatto con l’umanità in transito, godono di una visuale privilegiata e, tra un luogo comune e la via crucis dei semafori, hanno sempre una bella storia da raccontare;
– la gggente. Io sono una persona socievole. Parlo con tutti. Sorrido a tutti quelli che lo meritano. La gente mi racconta i cazzi suoi (e io solitamente ricambio). Ogni mattina saluto i “bengalini” che hanno la bottega sopra casa mia (aperti fino alle 23, mi fanno credito quando mi dimentico di prelevare), il ragazzo col banco della verdura (porta i pomodori buoni come quelli di giù e quando devo fare altri giri mi tiene la spesa per quando sono di rientro, così non me la devo trascinare per tutto il quartiere), quello dei giornali al semaforo (non il tizio che vende la pelle di renna: lui lo sfanculo, mattina e sera, perché mi dice “bella, tu bella”). Mi piace che Patrizia, dal chioschetto della sua edicola, mi tenga aggiornata su quello che succede nel quartiere, mi chieda cos’ho quando mi vede sbattuta e mi dice quando le sembro luminosa. Rimango incantata quando, com’è successo ieri passeggiando sotto ai portici di piazza Vittorio mangiando un panino caldo, mi sono voltata e ho visto i fiori e il verde della piazza, i suoi ruderi e i suoi gatti pigri. E mi piace quando, rientrando dopo il lavoro verso casa, l’uomo che suona a Vittorio Emanuele (“La ballata dell’amore cieco” è uno dei suoi cavalli di battaglia) interrompe la sua performance metropolitana per dirmi “Ciao!”. Non importa quanto triste sia la canzone suonata: avete idea di quanto sia bello sentire la musica disperdersi tra i pensieri della gente che si sfiora?