A Siracusa Isabella Ragonese incarna Crisòtemi, simbolo dell’assenza
Sabato 22 agosto nuovo appuntamento al Teatro greco di Siracusa per il ciclo “Inda 2020 Per voci sole”, organizzato dalla Fondazione Inda. In scena il “Crisòtemi” di Ghiannis Ritsos letto da Isabella Ragonese, accompagnata dal vivo dalle musiche di Teho Teardo (elettronica) e Giovanna Famulari e Laura Bisceglia (violoncelli). La cura registica è di Fabrizio Arcuri che scrive nelle note di regia: “Come si può rappresentare l’invisibile, la trasparenza, la fragilità che resta schiacciata dall’intraprendenza, la vita gioiosa e spensierata, simile a quella di un eterno bambino, in un’epoca in cui solo la violenza e la morte sono visibili? Tutti sono in guerra, tutti sentono l’odore della lotta per ottenere un primato, per strappare a un altro “qualcosa”, per poter vivere e costringere un altro a morire. Gli interrogativi che si pone Crisòtemi, la sorella della vendicativa e sanguinaria Elettra, sono molto più vicini e reali di quanto questo testo, aereo e trasognato, non lasci immediatamente intendere, in questa articolata invenzione di un personaggio minore che Ghiannis Ritsos elegge a simbolo dell’assenza”.
“Una donna ormai anziana conserva le fattezze e le reazioni pure di una bambina – prosegue nelle sue note Arcuri -, il rossore del volto, la reticenza nel trattare certi argomenti, le fughe solitarie in un mondo fantastico. Crisòtemi ha trascorso la sua intera esistenza rincorrendo stralci di poesia e di bellezza, sognando di poter essere vista, compresa, un giorno, da qualcuno, di poter accedere al mistero dell’eternità attraverso l’amore e la bellezza. I passaggi fra i suoi pensieri sono commoventi per la loro delicatezza, quasi inconsistenti per un mondo adulto e pratico, abituato ai gradini della logica, ed obbligano chi vi si accosta a fare un salto con le scarpe. Questa la potente immagine che il grande poeta Ritsos ci consegna. Isabella Ragonese, complice della sua grazia e della sua innata adolescenza, regala il corpo e la voce a questa idea di assenza che è la Crisòtemi amplificata dalle atmosfere oniriche e concrete al tempo stesso, che Teho Teardo costruisce quasi si fosse immersi in un paesaggio sonoro in una stanza della memoria che è qui ma è anche nell’eternità”.
Margherita Rubino, docente un iversitaria e componente del cda della Fondazione Inda: “Scritta poco dopo Aiace, al culmine della prigionia e dell’angoscia di un popolo, quello greco, e di un poeta, Ghiannis Ritsos, azzannati e torturati dagli esiti del colpo di stato dei colonnelli greci (1967), questa Crisòtemi segue le tracce del personaggio creato da Sofocle in Elettra duemilaquattrocento anni prima. Nella tragedia greca
cui Ritsos si ispira, Crisòtemi viene ideata come una sorta di personaggio teatralmente finalizzato al chiaroscuro, usata perché risalti al massimo la forza della sorella eroica, Elettra, vero motore del matricidio di Oreste. Era una tecnica che Sofocle usava spesso: identico, ad esempio, è il colore teatrale di Ismene rispetto alla sorella Antigone. Creature minori, deboli, al cui confronto l’eroicizzazione della protagonista risalta al massimo. La formula drammaturgica creata da Sofocle, ove la luce cade purissima e accecante su un solo protagonista, crea con Antigone ed Elettra due eroine immense, mentre sulle sorelle minori, Ismene e Crisotemide, cade una luce ben più fioca. Pure, Ismene è creatura secondaria ma luminosa. Crisòtemide invece è solo una che “preferirebbe di no”. Ritsos scrive per lei un soliloquio bellissimo, acceso dall’attenzione non del tutto sprezzante del suo autore per quelli che “vivono sempre in margine agli eventi”, che hanno “vissuto senza vivere tante e tante vite, compresa la propria”.
“Una giornalista molto giovane va a trovare Crisòtemide per una intervista – prosegue nella sua nota la Rubino -, ascolta e scrive la non-storia di lei, che pare stupita: “come è che si sono ricordati di me? nessuno si ricorda mai di me, nessuno”. Carica di anni e stravolta dalla propria stessa “inapparenza”, Crisòtemide racconta sprazzi della sua vita (“dunque, da questa mia in apparenza, mi compiacevo di vedere e di ascoltare. Potevo sognare liberamente”), rievoca frammenti di specchio delle azioni compiute da altri: “a quale scopo, poi, intervenire? Ho appreso molto presto che non ci è dato scongiurare niente”. Le azioni, quelle eroiche e quelle criminali, non sono mai state sue, mai un commento, mai un riverbero di sensazioni o decisioni: “e intorno a me sempre quella luce indefinita, aureolata nella mia solitudine, nel mio abbandono, nella mia inapparenza”. Clitemnestra, Oreste, Elettra si sono macchiate le mani di sangue, hanno ordito o compiuto nefande azioni, ma pure hanno agito, hanno vissuto. Lei, pallido esempio teatrale di inazione tranquilla, stanca alla fine, ma non come la Elena di Ritsos, vecchissima e ricca di umori e memorie, “felicemente stanca, senza più sogni o desideri, solo col bisogno intenso e dolce di chiedere perdono a tutto e a tutti…. scusatemi, scusate questo essere insignificante che non ha alcuna azione di cui andar fiera. Niente”. Come tutti i Greci che davanti alla ferocia di un regime che fece la storia, vissero e basta, senza prendere nota”.
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