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Anna Giurickovic Dato, sogno e disincanto nel racconto dell’ineluttabile

Libri e Fumetti “Il grande me” (Fazi Editore), il nuovo romanzo della scrittrice catanese è incentrato su di una malattia senza possibilità di cura risolutiva che devasta corpo e psiche. E palesa all'essere umano l'ineluttabilità della morte accompagnata da atroci dolori. Un tema che comporta sul piano narrativo scelte etiche complesse. La scrittura di Anna Giurickovic Dato senza alcun cedimento a frasi e ricostruzioni stereotipate fra trasparire il dramma della condizione esistenziale con senso di umanità

L’atteso ritorno nelle librerie della scrittrice catanese Anna Giurickovic Dato conferma in pieno il suo talento, anzi ne mostra altri aspetti: una versatilità ed una capacità di confrontarsi su argomenti diversi. Il nuovo romanzo “Il grande me” (Fazi Editore) è incentrato su di una malattia senza possibilità di cura risolutiva che devasta corpo e psiche. E palesa all’essere umano l’ineluttabilità della morte accompagnata da atroci dolori. Un tema che comporta sul piano narrativo scelte etiche complesse. La scrittura di Anna Giurickovic Dato senza alcun cedimento a frasi e ricostruzioni stereotipate fra trasparire il dramma della condizione esistenziale con senso di umanità.

Anna Giurickovic Dato e il suo nuovo romanzo “Il grande me”

L’autrice scrive e fa vivere il romanzo attraverso Carla (figlia del protagonista gravemente malato), la voce narrante e protagonista anch’ella: “Ridiamo, ci guardiamo negli occhi e con quelli non ridiamo. É un ridere a metà, uno stare insieme a metà, separati da una morte che è già seduta tra di noi e la sentiamo. Fate presto, ci dice, vi ho lasciato il tempo giusto per conoscervi, scambiatevi le ultime parole, voi figli, imparate da lui tutto ciò che ha da insegnarvi, prendete appunti, registrate ogni momento, così poi potrete moltiplicarlo, non siate tristi, non ce n’è il tempo, scambiatevi le vostre ultime risa, accarezzatevi, toccatevi perché non vi siete mai toccati, allontanate la timidezza, l’imbarazzo non c’entra con questi ultimi mesi, questo periodo è la cerniera delle vostre vite, apritela con delicatezza, lasciate che i vostri lembi si separino come ci si separa da un abito pesante tra l’estate e l’inverno, raccogliete tutto di vostro padre, così potrete contenerlo. Dove sono i tuoi fratelli? Mi chiede la morte, la sento piena di sospetti nella voce, cosa vuoi insinuare, morte? Cosa vuoi che io pensi di loro? Mio fratello, il mio dolcissimo fratello, è qui ogni giorno e Laura sta arrivando. Chi si è fatto carico di questo povero uomo durante tutti questi anni?, mi sfida la voce querula della morte. Di certo non io, che me ne stavo in un’altra città; per fortuna non mi sento perché da qualche parte, forse dal mio petto, arriva un rumore stridente di vetri rotti e mi ottunde i pensieri. Se ci siamo stati sempre o meno, male o bene, poco importa, ora, perché non è questa la resa dei conti, è la sola occasione che ci resta”.

La luce della speranza utopica dapprima contrasta con l’ineluttabilità del dramma del dolore ma anche quando la speranza si spegne non manca mai la delicatezza della sensibilità umana: il ricordo dei momenti del passato che danno un significato anche alla situazione più complessa, la forza degli affetti che fa superare i peggiori stati di scoramento. Ed i 3 figli del protagonista colpito da un male incurabile divengono rete della memoria, rete degli affetti, non in maniera razionalistica ed ordinata ma con autenticità intrisa di contraddizioni. Perché la medesima esistenza umana è intrisa per tutti di contraddizioni a volte incomprensibili, altre volte insolubili. E dal romanzo emerge l’intersecarsi dei contrasti: “Nella solitudine, però, siamo anche capaci di gioire. Qualcuno potrebbe ritenerla una libertà immorale, ‘ve ne state a ridere felici mentre vostro padre muore’, eppure, ho compreso, la gioia non è il contrario del dolore, ma ne è una componente e con esso può convivere. Si pensi, per esempio, alla gioia di sorprendere il proprio riflesso allo specchio mentre si piange: la sofferenza si congela in un moto di stupore e di autoanalisi, sino a che può capitare che io rida di me e con me e d’un tratto mi senta appagata del mio stesso pianto, entusiasta di poter finalmente guardare dove nasce e dove termina, se termina, rapita dal colore dei miei occhi che mi appare più brillante, deliziata dalle mie gote rosse, gaudente, con il viso sì gonfio, ma mai brutto, perché quando il dolore è stato tanto forte da tendere la pelle verso un’espansione, anche il sorriso che ne segue sembrerà più grande e, quindi, più lieto”.

La storia del romanzo si svolge a Milano, dove Carla, il fratello e la sorella, raggiungono il padre colpito da un tumore che come mostreranno le analisi mediche non ha alcuna soluzione curativa. Ma la storia rimanda continuamente alla Sicilia, a Catania, alla dimensione etnea. Momenti di vita che riaffiorano attraverso il romanzo della memoria, molti passaggi che rendono il libro ancor più interessante e vivo. E la storia si snoda fra il presente ed il passato, con un riemergere di ricordi che fanno diventare i luoghi etnei dimensione laica dell’anima. La formazione del padre di Carlo avvenne a Catania, anche sul piano delle letture: “Lesse le Odi di Orazio, Geografia di Tolomeo, addirittura, quando proprio finirono i titoli a disposizione, si appassionò a Il canone della medicina di Avicenna e Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, finché passò a Il manifesto del partito comunista e a L’origine della specie. Solo quando davvero non seppe più cosa leggere (a quel punto la lunga febbre era solo un ricordo, un aneddoto di famiglia) dirottò verso narrativa, cominciò a comprare i libri dal giornalaio che era in Piazza Europa, a Catania, mettendo tutto in conto al nonno (il mio bisnonno), che era uomo conosciuto e facoltoso e aveva conti aperti in ogni dove. E così, ogni settimana, con il giornale, si portava a casa un romanzo, che fosse il Don Chisciotte o I dolori del giovane Werther. Dopo aver letto La rivolta degli angeli di Anatole France, chiese alla madre di chiamare il falegname che lavorava, spesso, alle cose di casa, e si fece costruire una enorme libreria a muro, alta quanto il soffitto”.

Anna Giurickovic Dato al Palazzo della Cultura di Catania per la presentazione di “Il grande me” per Etnabook

Emerge forte nel romanzo l’amore per la musica del protagonista, che nonostante i successi nella professione e nella politica, non ha mai dimenticato il suo sogno infranto, irrealizzato. E la figlia Carla ricorda: “Chiunque pensi a mio papà, lo ricorda cantare. Mio padre, l’animale da palcoscenico, il centro di ogni attenzione a costo di far brutta figura, il genio, lo zimbello, il provocatore. Papà, che a vent’anni se ne andava in giro per il mondo con una chitarra (…) eccentrico, ama parlar di sé, ma ancor di più adora che la gente ne parli, bene o male non importa. Del suo gruppo si leggeva sui giornali catanesi, ‘Gli Arcady’: in tre, se ne stanno come statue fiere, sparpagliati sugli speroni di un faraglione nero, di fronte al mare di Acitrezza. Papà è al centro, ha baffi grossi e neri, i capelli ricci e due basette forti. – Io cantavo – mi racconta – abbiamo suonato nei bar, ma anche per strada, raccogliendo denaro nel cappello”.

Tra sogno e disincanto è il padre malato a ricordare: “Si sparse voce, a scuola, che la band che avrebbe dovuto aprire il concerto di Patty Pravo al Paypar di Catania stesse cercando un chitarrista. Ciccio, infatti, era partito militare e Mario e Arturo, voce e batteria, erano rimasti soli. Mi misi in testa di entrare nel gruppo, ma sapevo che quelli, diciannove anni per uno, non avrebbero mai preso un bambino della mia età se non gli avessi dato un buon motivo. Così chiamai l’amico Costa, che un grande musicista non era di certo, ma aveva tanta voglia di apparire e soldi da spillare ai genitori, proprietari della famosa argenteria in Corso Italia. ‘Senti a me, Simone, quelli nemmeno ci stanno a sentire perché abbiamo quattordici anni” mi rispose lui. ‘Io, però, sono bravo. Il più bravo di Catania’ gli dissi io, che da bambino ero un po’ spocchioso. ‘Ma a loro non ci importa niente, Simone, se siamo o non siamo buoni a suonare. A loro ci interessa che siamo come loro, perché due sfigati così non ce li prendono mica a suonare per Patty Pravo’. ‘Uno’ gli ho fatto. ‘Uno cosa?’ ‘Un solo sfigato, dico’. Costa mi dette una botta sul gomito, ma aveva lo sguardo bonario e sorrideva. ‘Parla per te quando dici sfigati, che io ne ho tanta di strada da fare, ma un poco ne ho già fatta’, aggiunsi. E mentre Costa apriva la bocca per controbattere, lo interruppi ‘stai a sentire a me, cosa gli offriamo a questi?’ ‘Che intendi?’ ‘Se è come hai detto tu, dobbiamo offrirgli qualcosa che possa compensare la differenza di età.’ Rinvigorisce quando parla di sé da giovane, come se bastasse il ricordo della sua giovinezza a mantenerlo in vita. – Così decidemmo che Costa avrebbe messo a disposizione lo scantinato, chiedendo il permesso ai genitori, e ci presentammo alle audizioni da Mario e Arturo… ‘Io sono il chitarrista più bravo di Catania’ mi presentai, e loro risero di quella mia sicumera che somigliava a ingenuità. Io rimasi serio, come è serio chi cerca di realizzare un sogno, mi misi la chitarra sulle ginocchia e cominciai a suonare”. 

Registro delle presenze a Etnabook, foto di Salvo Puccio

Entrarono nel gruppo, provarono tanto ma poi il chitarrista tornò ed il sogno si infranse… “E già si organizzavano le file, di studenti, dal primo all’ultimo anno, di professori, che per nulla al mondo avrebbero perso quel concerto, e di madri, padri, zii e lontani cugini che sarebbero arrivati da Giarre, Fiumefreddo, Francavilla, o discesi dai ripidi paesini dell’Etna. Tutti, in quei giorni, si informavano su come assicurarsi dei buoni posti allo spettacolo. Sicché un giorno, alla vigilia del concerto, Costa e io ci recammo, come sempre, allo scantinato dell’argenteria – le chiavi, ormai, le deteneva il capo gruppo, Mario, e lui ne faceva uso come meglio credeva – e vedemmo i soliti due, l’uno alla batteria, l’altro alla voce, accompagnati da una chitarra matura, dalle dita forti di Ciccio, quel Ciccio, che chissà come chissà perché, forse aveva avuto un permesso, era tornato dal militare. Noi due restammo sulla porta per quasi una mezz’ora, aspettando che uno di loro, tra una canzone e l’altra, ci facesse segno di entrare e di metterci, come al solito, alla chitarra. Ma Arturo e Mario non fecero alcun segno, solo una volta alzarono lo sguardo ma fu come se non ci avessero mai visto, finché noi, pieni di vergogna, uscimmo dallo scantinato e Costa gli disse ‘le chiavi ve le lascio, poi le riportate in argenteria’, ma loro nemmeno risposero. Lì vicino, sui muri, erano appena comparsi i cartelloni, che dicevano “Evento immancabile, Patty Pravo al Pyapar di Catania” e, con un carattere più piccolo ‘aprono il concerto i Biancavilla’. Sullo sfondo nero, sotto la grande faccia della Pravo, c’era persino la fotografia di Mario, Arturo e Ciccio, rispettivamente alla voce, alla batteria e alla chitarra. Fu allora che capii non solo che al Paypar non ci avrei mai suonato, ma anche che sin dal primo momento nessuno, tranne me, aveva davvero creduto che sarebbe successo”.

E l’uomo racconta alla figlia Carla anche la sua “prima volta”: “E lasciami raccontare, che sarà mai! Avevo quattordici anni, per un maschietto non era mica solito a quell’età… Passai alcuni giorni nell’albergo dei tuoi zii, a Pedara ed è lì che conobbi la ragazza – pensavo mi sarei ricordato il nome e invece non lo ricordo, no, non lo ricordo affatto, la mente, la testa mi sta lasciando eh – una belga, di quindici anni, che vi trascorse tutto il mese di settembre con i suoi genitori. Facevano le escursioni sull’Etna, andavano a mare, e qualche volta l’avevo invitata a passeggiare assieme o in pista, per un ballo. L’ultima sera, probabilmente esausta di questo mio corteggiamento timido (allora, francamente, non sapevo neanche che la stessi corteggiando), mi portò in una stanza dell’hotel e fece tutto da sola. Non posso dire che mi sia piaciuto, non so nemmeno cosa abbiamo fatto esattamente, ricordo solo il cuore sospeso, tra l’emozionato e l’ansioso, e l’imbarazzo di una situazione poco appagante. Però, ero stato il primo tra i miei compagni. Ancora una volta: il primo tra tutti”.

Il libro è pieno di storie, di luoghi, di racconti, tutto da scoprire non solo per il passato che riaffiora ma per il presente che si svolge ed incombe nella narrazione.

Nuove presentazioni siciliane del romanzo sono in calendario sabato 17 ottobre alla Legatoria Prampolini di Catania, dialoga con l’autrice Maria Carmela Sciacca (accesso gratuito su prenotazione tramite l’email stampa@libreriavicolostretto.it, o telefonicamente ai numeri 0953787222 e 0952962587); domenica 18 ottobre, alle 17.30, al Liccamucciula di Marzamemi per la seconda edizione del Marzamemi Book Fest, dialoga con l’autrice Cettina Raudino (accesso gratuito su prenotazione all’email prenota@liccamuciula.it o via whatsapp al 3384638731 o via social alla pagina facebook @liccamuciula).

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