Blog Il semidio, metà uomo e metà cavallo, fu precettore d’eccellenza: la sua natura doppia lo rese in grado di cogliere nei giovani l’instabilità dell’adolescenza, e li aiutò a tirar fuori l’uomo, il dio, l’eroe che era dentro ognuno di loro, sostenendo il valore della diversità come affermazione della propria identità in ogni ambito possibile
Il possente Crono, re dei titani, un giorno bighellonando per le selve della Tessaglia vide una fanciulla che raccoglieva, lungo le sponde del fiume Anfriso, bacche mature e tenere foglie. Era la ninfa Filira, esperta nella preparazione di profumi ed unguenti per la gente di quei luoghi. Crono cominciò a seguirla per più giorni mangiandosela con gli occhi, fino a quando una mattina, approfittando del fatto che la ragazza per il caldo cercava riparo nella frescura del folto bosco, con respiro rauco dal desiderio, la insidiò tra i cespugli rigogliosi di una radura.
Nel culmine dell’amplesso imposto, accanto ai due si materializzò Rea, moglie di Crono: il fedifrago, non sapendo cosa replicare davanti all’evidenza, ancora avvinto alla bella ninfa si tramutò in cavallo e meschinamente scappò via al galoppo. La giovane Filira guardò sgomenta Rea e avrebbe voluto proclamare la sua innocenza, ma la dea con sguardo pieno d’ira le sibilò che avrebbe rimpianto per sempre quel momento. Ben presto Filira si accorse di essere incinta e, quando il tempo approssimava la venuta al mondo del suo bambino, si arrampicò con fatica lungo i fianchi scoscesi del monte Pelio cercando un anfratto dove attendere la nascita del figlio.
Il travaglio fu terribile e la giovane affrontò da sola i dolori del parto; stremata si assopì ma, quando si riprese, fu in preda allo sgomento nel constatare come Rea si fosse subdolamente vendicata: il neonato, che si agitava nel giaciglio di foglie e muschio, era un essere mostruoso: metà uomo e metà equino. Filira chiamò a testimoni gli dei per la crudele vendetta, ricevuta tra l’altro per un oltraggio subìto; poi si percosse forte il petto, dolente per il latte montante, e disperata invocò le Moire. Le divinità implorate non la fecero morire ma impietosite la trasformarono in un verde e profumato tiglio, pianta cara alla giovane ninfa.
Per far sì che il capriccio scellerato di Crono non avesse altre nefaste conseguenze, Apollo ed Atena salvarono quell’esserino dai riccioli d’oro e dai teneri zoccoli e, poiché in fondo era anch’egli un semidio, lo condussero nell’Olimpo. Il piccolo mostro possedeva qualità divine e pregi umani, e crescendo evidenziò le une e gli altri. L’Olimpo rispettò la sua inclinazione, ereditata dalla madre, nell’arte di creare medicamenti e balsami; gli dei per questo lo chiamarono Chirone, colui che lavora con abili mani, e mai nome ebbe migliore accezione.
Ben presto la sua fama travalicò la dimora eccelsa per estendersi in tutti i luoghi terrestri fino ad allora conosciuti. Non volle mai lasciare l’amata Tessaglia e visse senza alcun lusso nell’anfratto del monte Pelio, accanto al Tiglio madre; infatti, sebbene allevato nell’amore, il piccolo centauro avvertiva sempre la propria condizione di orfano che lo rendeva malinconico, misurato nei giudizi e comprensivo verso l’altrui sofferenza.
Il mito racconta che egli fu un centauro anomalo, molto diverso da tutti gli altri centauri, le cui ascendenze erano diverse ed i comportamenti terribili. Chirone amava le scienze, la musica, ma soprattutto curare ed insegnare ai giovani la musica, il tiro con l’arco e la scienza medica: tra i suoi discepoli molti eroi e semidei, Enea, Giasone, Peleo, Ulisse, Teseo, Dioniso, Ercole e ad alcuni di essi aveva reso salva la vita.
Tra questi Achille, figlio del mortale Peleo e della ninfa Teti; la madre per renderlo immortale, dapprima lo immerse, tenuto per un piede, nelle acque dello Stige, poi lo pose su un braciere ardente per togliere ogni residuo di mortalità. Il piccolo, rimasto orrendamente ustionato, fu portato dal padre Peleo presso l’antro di Chirone.
Questi, da abile chirurgo, lo ricoprì di unguenti lenitivi e sostituì l’osso della caviglia, ormai bruciato, con quello del gigante Damiso che, tra tutti i giganti, primeggiava in velocità. Ed ancora Asclepio, figlio del dio Apollo, destinato a diventare il dio della medicina. Con Asclepio Chirone aveva in comune la perdita della madre in età precocissima: Chirone alla nascita, Asclepio ancora prima. Infatti la madre, la principessa Coronide, amava riamata il dio Apollo che soleva trascorrere gran parte del suo tempo con lei; un giorno il dio, dovendo allontanarsi per andare a Delfi, affidò al suo servo, un bellissimo corvo dallo splendido e candido piumaggio, il compito di controllare la fanciulla nella sua assenza.
Ma i genitori di Coronide, essendo la ragazza in età di marito, organizzarono un incontro a scopo matrimonio con il giovane Ischi . Il fedele corvo volò da Apollo per metterlo al corrente della vicenda ma quando, non senza un certo compiacimento, ebbe concluso il suo messaggio, il dio per la collera gli tramutò in nere le sue bianche piume e lo condannò in eterno ad essere considerato messaggero di sventure; infine Apollo per chiudere la vicenda ritornò ed uccise l’infelice Coronide. Questa, in punto di morte, rivelò al dio che il figlio che portava in grembo era suo; allora Apollo disperato estrasse dal ventre della moribonda il piccolo essere e lo affidò a Chirone, che con le sue cure lo mantenne in vita e lo educò alle arti mediche, consegnando il suo nome alla fama eterna.
Chirone fu dunque precettore d’eccellenza: la sua natura doppia lo rese in grado di cogliere nei giovani, a lui affidati, l’instabilità dell’adolescenza, i mutevoli stati d’animo che accompagnano la trasformazione del fanciullo in individuo. Chirone li aiutò ad uno ad uno a tirar fuori l’uomo, il dio, l’eroe che era dentro di loro; sostenne inoltre, ed egli stesso ne era prova vivente, il valore della diversità come affermazione della propria identità in ogni ambito possibile: la musica “arte delle Muse”, relazione matematica tra gli elementi della natura e balsamo per l’anima; il tiro con l’arco dove arco e frecce, strumento arcaico, divenne per Chirone il simbolo eternato in una costellazione in cui le frecce simboleggiano la perenne ricerca dell’uomo verso nuove speculazioni e ardite conoscenze, ma anche arma implacabile che gli procurò la morte.
Per quella freccia avvelenata, che per errore lo colpì, il centauro raffinato scoprì la sofferenza fisica e, mentre la sua parte mortale avrebbe voluto morire, la sua parte divina non glielo consentiva. Destinato ad una vita di sofferenze, ancora una volta l’Olimpo venne in suo soccorso e Zeus clemente gli concesse di barattare la sua condizione di immortale con quella dell’umano Prometeo, incarnando il paradosso del “sanatore ferito” cioè colui che guarisce ma che, a sua volta ferito, non può guarire se stesso.
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