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Dalle viscere dell’animus al blu sulfureo, il viaggio di Giorgio De Luca: «Verso la Casa segreta in cui risiede l’anima d’ognuno»

Libri e Fumetti Una vita in continua ascesa verso la meraviglia dell'interiorità quella di Giorgio De Luca, docente di materie umanistiche e maestro di discipline sportive della riflessione, detto il "Masaru" (colui che eccelle), uscito a fine 2022 con “Sulfur” (Algra editore): «Una diversa lente per identificare il sentiero verso la Casa Segreta in cui risiede l’anima, un luogo supremo protetto dal nemico supremo dello spirito umano: l’indifferenza». Il 20 gennaio la presentazione editoriale a Sant'Agata Li Battiati

Nel 2018 un interessante volume di narrativa induceva l’opinione pubblica a dichiarare un genere ritrovato, o forse rivisitato, di quello che viene definito romanzo di formazione. Il titolo La vera storia di Dubliner Lurk, non era una granché intuitivo ma forse la bellezza dei contrasti in copertina e nella stretta cugina di questa, la quarta di copertina, qualcosa mosse a far pensare che l’autore aveva molto da dire: il dolore che devasta il protagonista che giunge alla volontà suicidaria per poi retrocedere verso la ricerca d’altre sofferenze che gli avrebbero fatto scoprire sensazioni e altezze motivazionali, riposte forse nella memoria subliminale che ogni essere umano possiede. Due anni dopo, in piena pandemia, usciva Lo smembratore di cadaveri e altri racconti, antologia di racconti dove la ricerca del Sé è rinforzata da quello che è un sottilissimo, quanto profondo, viaggio dell’anima che vede ben oltre ciò che farebbe intendere il titolo. I due libri furono pubblicati dal siciliano Algra Editore e fu una rivelazione trovare nel catalogo dell’editore della provincia etnea, tanta fittizia oscurità che, ci azzardiamo a dire “omeopaticamente”, svelava luce.

Un profilo di Giorgio De Luca

Un profilo di Giorgio De Luca

Autore delle due novità succitate è Giorgio De Luca, docente di materie umanistiche e maestro di discipline sportive della riflessione, ci piace definire così quelle discipline che inclinano il loro insegnamento verso la ricerca interiore e la difesa disarmando l’altro con un semplice gesto di insegnamento. De Luca – detto il “Masaru”, cioè “Colui il quale eccelle nella discepolanza e nella disciplina per il raggiungimento dell’obiettivo” – alla fine dello scorso anno, sempre per Algra, ha pubblicato Sulfur, siamo tutti blu (pp. 204, € 15,00), un libro che affonda bene la lama verso quel superamento che, nell’ottica archetipica hillmaniana, consegna rivelazioni e verità che vanno ben oltre quel conservarsi, psicologicamente, nella memoria a lungo termine. La presentazione editoriale del volume venerdì 20 gennaio, alle 18,  aprirà la rassegna “VenerDìLibri”, presso m’BARuzzo, a Sant’Agata Li Battiati, nell’hinterland catanese, e chi scrive avrà il piacere di dialogare con l’autore.

Durante la chicchierata (che è più sembrata più una lectio magistralis) l’autore etneo così ha introdotto chiarimenti su cosa, o chi è “Sulfur”, e perché “siamo tutti blu”: «In chimica, Sulfur è il nome latino dello zolfo, minerale appartenente alla tavola periodica degli elementi. In alchimia, lo zolfo (Sulfur) è uno strumento: entra in gioco nel percorso di trasformazione attuato nella cosiddetta Grande Opera il cui fine è il conseguimento della Pietra Filosofale. Si tratta della trasformazione del metallo vile, rozzo e impuro (tradizionalmente il piombo, allo stato di Nigredo) attraverso la transizione solforica che lo plasma verso la purificazione (che giunge allo stato di Albedo). Tale metallo, in virtù del passaggio finale del fuoco definitivamente sublimante (lo stato di Rubedo), muta infine in purissimo oro: la Pietra Filosofale, appunto. Tra la Nigredo (oscurità assoluta, materiale e psichica, rappresentata cromaticamente dal nero) e l’Albedo (luce della purezza, rappresentata dal bianco argenteo), interviene un’opera di chiarificazione trasmutante attivata dalle facoltà purificatrici dello zolfo. Tale elevato movimento è connotato dal colore blu. In extenso, e simbolicamente, il blu diviene il colore della trasmutazione, nonché della sublimazione dall’immanente al sommo trascendente. Inoltre, il blu è un canale equivoco: nel senso che, rappresentando una condizione di passaggio permanente, è come una porta aperta attraverso la quale il vento può entrare, uscire e cambiar direzione anche imprevedibilmente, in base all’andamento delle cose, qualunque esse siano. Così il moto dall’oscurità alla luce può potenzialmente invertirsi, e restituire al buio la parvenza di chiarore che il processo sembrava promettere. Ciò, nella mia visione, equivale al continuo rimpiattino tra corruttibilità e salute col quale, inevitabilmente, l’anima fa i conti una volta incarnata e vestita di quidditas umana».

Sulfur, il terzo romanzo pubblicato per i tipi di Algra

Sulfur (Algra), il terzo romanzo di Giorgio De Luca

Con questo romanzo cambia genere rispetto ai precedenti, dei quali uno è una breve antologia. Cosa l’ha spinta a scrivere di un argomento che tratta temi così non ricorrenti tra i lettori contemporanei?
«In realtà c’è stretta connessione con i lavori precedenti, benché l’habitus cambi. Di fatto si ripropongono, inevitabilmente onnipresenti, il viaggio interiore, la verticalità del movimento, l’osservazione della trasformazione, il riconoscimento di ciò che cambia dentro. “Sulfur” è una diversa lente atta a identificare il sentiero verso la Casa Segreta in cui risiede l’anima d’ognuno: un luogo superiore – per quanto ctonio, persino infero – circondato da mura alte e spesse, da filo spinato e campi minati, eretti e distribuiti a mo’ di negazione dal nemico supremo dello spirito umano: l’indifferenza, individuale e collettiva. E’ questa la ragione per cui è così difficile arrivare alla Casa Segreta. Avendo però fatto esperienza della possibilità concreta di giungere a destinazione, mi parrebbe miseria riservare le coordinate di tale opportunità solo per me. Detto questo, aggiungo che – al di là dell’ispirazione egemone ed invitta, la quale ordina ai suoi servitori con quali pietanze imbandire la tavola della creatività, ispirazione che è frutto di strumenti interiorizzanti e rivelatori affinati nel lungo tempo (la respirazione, la meditazione, la disciplina e l’orazione, ovviamente supportate dalle variegate esperienze della vita e dalla ricchezza proveniente dalla lettura di libri e, metaforicamente del mondo) – volendo scendere al piano della motivazione razionale credo che proprio la disattenzione generale verso la sostanza di sé, distrazione che giudico una disfatta dell’umanità, mi induca a rispondere scegliendo – ma con naturalezza – i “miei” temi, inusuali e forse ostici. Tuttavia a me pare siano comunque adombrati sempre, in ogni opera di qualsivoglia scrittore. Ciò che spesso manca è, piuttosto, il coraggio dell’approfondimento, delle scelte e della conseguente accettazione di risultare impopolari perché si segue l’istinto a sondare terreni spirituali irregolari, faticosi, appunto minati e spinati, rischiosi per l’immaginario collettivo il quale, progressivamente, sta spostando il proprio baricentro verso su: ma un su triste, deprivato, che separa dai segreti archetipici e consapevolizzanti che risiedono nelle caverne dell’inconscio. Per istinto io ricaccio giù, me stesso e chi incrocia la mia vita, con la parola scritta e col confronto dialogico, affinché non si perda il principio fondamentale dell’Occasione: di recuperare il contatto con la propria, intima sostanza, e con essa conversare sino al riconoscimento e all’accettazione di sé e del mondo. Ho il difetto di amare la libertà del cuore e l’affrancamento dell’anima, dei quali mi pongo al servizio per come posso».

Giorgio De Luca

Giorgio De Luca

Lei utilizza anche un linguaggio molto ricercato: è voluto o necessitava proprio all’opera questa tipologia?
«Parto da una mia personale percezione: che non sia il mio linguaggio ad essere particolarmente ricercato quanto, piuttosto, che si sia impoverito quello della comunicazione contemporanea. Essa sembra aver rinnegato le facoltà della lingua italiana, in uscita (la scrittura) ed in entrata (la lettura). L’italiano è una lingua ricchissima, persino debordante, come nessun’altra eidetica, descrittiva, artistica in ogni suo singolo lemma. In tutta sincerità, non saprei scrivere diversamente, anche se – come in “Sulfur” – la maiestas degli argomenti, nonché la necessità di densità semantica che caratterizza l’espressione descrittiva più che narrativa del flusso di coscienza, hanno amplificato il bisogno tecnico di alzare l’asticella del livello linguistico».

Il primo romanzo pubblicato con Algra nel 2018

Il primo romanzo pubblicato con Algra nel 2018

C’è molto flusso di coscienza, ma vi sono “intervalli” che durante la lettura pongono interessanti interrogativi: in questo senso, potrebbe essere anche un romanzo di formazione?
«Credo non stia a me dirlo. Al più posso proporre alcune considerazioni. Romanzo di formazione è qualunque opera scritturale la quale, attraverso il suo farsi, indichi più o meno esplicitamente uno specifico percorso che da un punto (di partenza) conduca ad un altro (di arrivo, anche un arrivo aperto), al quale si giunga trasformati, evoluti. Formati. Ora, se è realistico riconoscere in “Sulfur” un movimento di questo genere e con tali caratteristiche, allora si: probabilmente è un romanzo di formazione. Ma, in questo senso, credo lo siano un po’ tutti i romanzi. Sono la morale, il messaggio, gli interrogativi a spianare il terreno alla formazione. Ancor più, preferirei parlare di opere di formazione, allargandomi sino a comprendere i prodotti di tutte le arti, a patto che “arte” siano. Ritengo da sempre che la migliore opera d’un artista sia la successiva, e in questa mia persuasione colgo l’influenza del fatto che ogni passo in più rappresenti, in colui il quale esiste, arricchimento di percorso, trasformazione che approccia progressivamente la formazione. Ma una certezza, sia chiaro, resta: umanamente, approdo alla formazione definitiva non ce n’è».

De Luca è istruttore federale di Kendo

De Luca è anche istruttore federale di Kendo

A presentare i suoi libri

De Luca a presentare la sua opera

Nel suo romanzo, Lucifero porta il nome di Massimo e se ne scorge motivo: Massimo/Lucifero Lucifero/Massimo. Ci spiega di più?
«La scelta del nome del personaggio, intendo Massimo, e del suo accostamento a Lucifero, è conseguenza per me interessante – di certo determinante – di una mia vicenda personale. Quando scrissi “Sulfur”, in una stesura completa ma evidentemente non definitiva, il titolo era un altro: “Le Ali di Massè”. “Massè” era l’alter nomen del personaggio principale, anche in quel caso, ovviamente, l’Angelo controverso, Lucifero. E anche il nome “Massè” era stata una derivazione dal latino Maximus, che in italiano diviene Massimo. Il rapporto creatosi tra me e il personaggio del mio lavoro fu tanto intenso che volli tatuarmi il suo nome. E preciso che ogni mio tatuaggio è sempre l’espressione conclusiva e manifesta di intensi percorsi dell’anima. Decisi inoltre che “Massè” fosse scritto in arabo, una delle lingue della nostra tradizione isolana, voce di un’antichissima e incantevole spiritualità, purtroppo ormai sbiadita e distorta. Dunque mi rivolsi a un amico, un ‘Ālim che faceva il venditore ambulante presso la storica Fera ‘o Luni di Catania, per un aiuto nella traduzione e, soprattutto nella trascrizione. Quando gli chiesi la cortesia, se possibile, di trasporre in arabo il nome “Massè”, lui mi rispose così: “Ecco, in arabo si direbbe (al)Masih”. Poi aggiunse: “Che in italiano significa Messia”. Bam! Ricordo ciò che provai: fui colto dalla sorpresa, per un attimo la mia coscienza si sospese e, letteralmente, d’intorno non vidi più nulla, se non il Nome farsi Materia. Massè, alMasih, Messia. Tornai rapidamente in me, ma quell’esperienza – più complessa, per il mio intimo, di quanto non si possa credere – fu una delle più rappresentative nel cammino del cuore attraverso la mia personale incarnazione dell’anima. E qui, per contattare appieno le emozioni, si dovrebbe entrare empaticamente nell’articolato percorso del mio cuore verso, dapprima, la scelta del nome Massimo, col simbolismo del Non Oltre a mio giudizio implicito nel nome; poi la ricerca di una sua versione altra, originale e un po’ esotica; ancora l’idea e la conseguente scelta di “Massè”, che ricordo essermi giunta alla coscienza come un mormorio risalito da un qualche indefinito fondale interiore, una bolla d’aria che sfugga, pertinace e morbida, a un relitto arenato e, procedendo dal nero del fondale attraverso il blu sempre più chiaro del mare verticale, arriva alla superficie per riunirsi alla completezza del Tutto. Inoltre, proprio questa versione dell’attraversamento mi ha indotto, poi, a considerare la connessione tra il processo di transizione e il colore Blu, a spostarmi sul piano dell’alchimia e a rivedere “Sulfur” nella sua chiave definitiva. Nel titolo – e in tutto il romanzo – il nome di “Massè” non è più presente. Ma lo è indelebilmente sulla mia pelle, da allora, iscritto in una delle due ali di un angelo stilizzato che porto tatuato sull’avambraccio sinistro».

James Hillman con Riccardo Mondo il catanese che ha fondato IMPA, Istituto Mediterraneo di Psicologia Archetipica

James Hillman (a destra) con Riccardo Mondo il catanese che ha fondato l’Impa Istituto Mediterraneo di Psicologia Archetipica

Lo stile è molto variegato, dal succitato flusso di coscienza con intervalli e momenti in cui si impone la musicalità dei ‘passaggi’: c’è una volontà e un messaggio in queste svolte?
«Diciamo che nella compresenza e contemporaneità di corpo, logos e spirito – cioè in una totalità esistenziale, ovviamente mai definitiva né risolta – esistono automatismi espressivi che si confanno all’animus di chi scrive. Ciò non toglie che la parte automatica venga sorvegliata e diretta dagli intenti. Del resto, l’intento stesso non va inteso quale mero artificio della mente: esso risponde – e chiede – alle esigenze dell’ispirazione, partecipando della stessa sostanza del Tutto nel quale la creazione prende identità. Implicito a tutto questo è certamente la spinta – ma spontanea – a esalare un messaggio, coerente col mio sentire complessivo. Un messaggio il quale è, di per sé, musica: quella del cuore, sulla quale lasciarsi andare e danzare il movimento trascendente di cui è colma l’anima di ognuno».

Con Hillman passiamo dal Puer al Senex, con lei azzardiamo un paragone: il dichiarato maligno è in qualche modo vittima, non teme che lettori poco avvezzi all’approfondimento possano in qualche modo contestarne il percorso spirituale del romanzo?
«Il rimando a Hillman è quanto mai puntuale, e tramanda – fra i molti – un insegnamento archetipico fondamentale: che l’adulto si compia attraverso la morte dei propri genitori. Poiché non si tratta di negazione della genitorialità bensì del suo trascendimento, il quale la genitorialità semmai la integra, purificandola dei suoi pesi impositivi mediante la liberazione del puer – il fanciullo divenuto adulto – e derivando da ciò il contemperarsi delle due energie antitetiche (Puer et Senex) in un rapporto di equilibrio fra le parti fondato sul reciproco riconoscimento della loro influenza attiva, archetipica, nella vita umana, allora anche il sovvertimento in “Sulfur” della relazione tra Dio e Lucifero, tra il Senex e il Puer, si dimostra emblematico. A ben vedere, il Dio della tradizione biblica e dell’idea genitoriale giudicatrice è profondamente saturnino: ligio, severo, quasi nevrotico, presumibilmente depresso. Ovviamente non è il Dio dell’amore ad esser tale, ma quello giurisdizionale, posto non al servizio ma al controllo esistenziale dell’uomo. Il che è contraddittorio rispetto all’idea – in particolare a quella plotiniana – del Dio d’amore che genera la Realtà tutta per sovrabbondanza del proprio incontrollabile Sentimento. Questi i fatti, che alla resa dei conti non hanno a che fare con Dio, cioè con una dimensione esterna a noi, ma col conflitto variamente accentuato nel quale ognuno si dibatte all’interno di sé. Detto ciò, aggiungo che non sono molto interessato ai potenziali malumori del lettore medio. Costui può avere l’intelligenza di andare sino in fondo, e prendere quantomeno in considerazione prospettive differenti, affatto peregrine e comunque occasione di confronto. In un caso del genere è naturale venirsi incontro, e sono sicuro vi sia, da qualche parte, il modo per capirsi, indipendentemente dalle posizioni che si finisce col tenere. Di contro ci sarà sempre chi rifiuterà di scalpellare la granitica convenzione sulla quale ha fondato la propria vita interiore. E lo comprendo: smantellata la struttura portante, del resto, cosa resterebbe se non un mucchio di macerie esistenziali? Il Senex che si ritrae dalla conciliazione col proprio opposto è destinato a diventare l’ombra delle proprie facoltà adulte, ad oscurarsi in un isolamento sterile. Ma se è il suo destino, una volta che l’indole abbia incarnato l’ombra di tale archetipo, l’amaro calice dovrà esser bevuto sino all’ultima goccia, con buona pace di ogni esito felicitante. Ebbè, sarà allora per un’altra vita. In ogni caso, per tornare alla sua domanda, ogni contestazione è benvenuta: il mio Puer ha ancora tanta strada da fare per tararsi sul Senex, conto archetipico che l’età raggiunta mi presenta: il confronto tra umanità differenti resta, a mio avviso, una delle migliori palestre di vita».

Un incontro col M.stro Giorgio De Luca

Un incontro Kendo col Maestro Giorgio De Luca

Di lei si sa che è un grande spiritualista, dalle discipline che insegna a quelle che pratica nello sport. Permetta la provocazione: vi è la volontà di dichiarare attraverso questa splendida opera un lato suo occulto?
«Accolgo con simpatia la provocazione. Purtroppo, però, non credo vi sia alcunché di occulto in me, se non forse per il fatto che il mondo non è pronto, e forse non lo sarà mai, ad accettare il fatto che ciò che sembra occulto vive, di fatto e nel quotidiano, agli occhi di tutti. Esso è offerta di approfondimento e conseguimento di rivelazione che il movimento nell’ordinario impedisce. In altre sedi ho trattato del rapporto tra ciò che ho chiamato orizzontalità e verticalità. La prima si snoda secondo il principio dell’alternatività, nel senso che – sia spazialmente che temporalmente – non consente la compresenza e/o la contemporaneità. In altre parole, se sono qui non sono altrove, se sono in questo tempo non sono in un altro tempo. Questa è la credenza, piuttosto fallace. Riconosco nell’hic et nunc (il qui e l’adesso) la capacità preziosa di saper vivere il presente. Ma tale presente non è affatto monolitico: esso è la stratificazione delle transizioni dal passato sino all’oggi, il quale è a sua volta promessa di germoglio del domani. Nel suo senso di concretezza (una importante lezione di semantica al riguardo ce la fornisce la lingua inglese, che con la parola concrete indica il cemento) è tuttavia implicito un immobilismo. A meno che il presente non consideri una possibilità oggi avallata anche dalla scienza: il passaggio attraverso strati paralleli dell’esistenza, entro un cammino che procede in orizzontale per necessità carnale ma, al contempo, per facoltà spirituale attraversa i vari strati, facendo di essi esperienza molteplice e variegata, vivendo dunque l’essrci heideggeriano – quello che non resta nel passato né si confonde col futuro, giacché noi esistiamo nell’oggi – quale dimensione di straordinaria integrazione delle conoscenze acquisite nel multiverso, mai meramente orizzontale e ricca degli insegnamenti che giungono da esperienze multiple e differenti in tempi disuguali ma compresenti: questa è la verticalità. A mio giudizio, tale verticalità in assenza di consapevolezza nell’individuo può apparire quale “occulto”, secondo l’accezione convenzionale che gli si attribuisce e che però, mi pare, risulti un po’ povera riguardo al senso dell’Essere. Quindi no, non credo di adombrare intenzionalmente alcun lato occulto; e, allo stesso tempo, in qualche modo è possibile che mi rivelari tale, ma in senso soggettivo, poiché esso dipende dal giudizio altrui il quale, se orizzontale, pecca di incompleta consapevolezza esistenziale».

Il sottotitolo “Siamo tutti blu”: è relativo al solo romanzo o vi è una trasposizione spirituale (a tratti archetipica) del reale?
«Come detto in precedenza, “Sulfur” è per intero l’espressione archetipica d’un viaggio spirituale. Parafrasando San Bonaventura, il mio lavoro potrebbe essere considerato un Itinerarium Mentis ad Hominem, piuttosto che ad Deum. E ciò è reso possibile dal travaglio spirituale che si assolve nel movimento Blu dalla Nigredo all’Albedo, per come già tratteggiato».

De Luca presenta il suo libro (Foto Paolo Pagliaro)

De Luca presenta il suo libro (foto Paolo Pagliaro)

Lei non fa a meno di usare simbologia metaforica per spiegare alcuni momenti comuni a tutti gli umani: “Sulfur” è anche un passo verso la saggistica?
«Al momento non saprei. In tutta franchezza ho già da parte un saggio un po’ sui generis, redatto nel 2003 ed inerente gli aspetti psico-linguistici del tatuaggio. L’ho rivisto di recente e se possibile l’ho trovato, se mi consente, più attuale oggi che ieri. Eppure ancora non è passato per i tipi di alcuna casa editrice. Ciò, forse, racchiude già la risposta alla sua domanda, almeno in termini di massima. La buona saggistica mi piace molto, e la trovo necessaria al contatto metodico con la sapienza e con l’approfondimento delle sue sfumature. Mi risuona però più coinvolgente, comunque a me più propria, quella para-saggistica che, sulla base del destro che lei mi offre con la sua domanda, chiamo narrativa saggistica o saggio narrativo. Dopotutto ci sono sempre molteplici percorsi per ottenere i risultati cui si tende, compreso l’obiettivo di un romanzo che si faccia saggio senza la pesantezza di accademismi. Del resto, da questo punto di vista non potrei che inchinarmi dinanzi ai mostri sacri della dimensione nella quale la mia scrittura si muove, nonché ad autori ben più atti di me a questo genere. La mia è una comunicazione – lo so bene – complessa. Riconosco però al mio scrivere e alla natura dei messaggi che condivido una semplicità morale di fondo, consistente nella libertà che offro di percepire ed accogliere la mia produzione, la quale non si avvale di prefazioni, post-fazioni, introduzioni demandate a terze parti. Questa è una scelta deliberata. Credo che solo un racconto sincero ed inerme, che dialoghi con l’anima più che con l’intelletto razionale, instauri tale affrancamento nell’altro, poiché non si ammanta di alcuna autorità accademica per farsi riconoscere e stimare, quando e se cita lo fa in termini di integrazione personale del pensiero citato, il quale come tutto ciò che viene integrato subisce una riplasmazione e s’arricchisce di sfumature, descrizioni, aspetti aneddotici che facilitano l’uomo della strada – nel quale mi riconosco – a trovare il proprio spazio vitale per corrispondere, in qualità di lettore, alle proposte dello scrittore. Ovviamente, non è mia opinione che tale operazione di sincerità e condivisione debba avvenire a detrimento della lingua italiana e delle sue mirabili opportunità. Anzi, responsabilità dello scrittore, in un’epoca di grave decadimento culturale, sia quella di mantenere la propria postura e, semmai, tirar su per i capelli coloro i quali si stanno lasciando scivolare nei pantani ingurgitanti della mediocrità».

L'antologia "Lo smembratole di cadaveri" una discesa nell'intimo recesso dell'anima

L’antologia “Lo smembratole di cadaveri”

Nei precedenti libri, in minima parte emergono aspetti che riscontriamo negli esseri umani: la forza della violenza come reazione autoindotta: si redime con “Sulfur”?
«Direi di no, e per due ordini di ragioni. Il primo riguarda la mia posizione, che chiamerei morale. Secondo essa l’uomo non necessita di redenzione, nel senso che tale redenzione è per me implicita nel processo di maturazione personale, nell’atto di ricerca e scoperta del punto di equilibrio fra gli antipodi archetipici che affollano il profondo d’ognuno. In altre parole, la redenzione non è – e non può essere – lo specifico atto eroico che metta in discussione il passato alla luce del presente quanto, piuttosto, il processo attraverso il quale Eros mette in discussione l’Ego Constrictor e affranca l’individuo affidandogli la libertà del Sé fra gli Altri. Il secondo ordine di ragioni è che, come giustamente lei ha scritto, la violenza è forza, energia, e in quanto tale l’energia non è né buona né cattiva. Può esserlo l’uso che se ne fa. Quante volte, ad esempio, il perbenismo ipocrita taccia di violenza l’animalità primordiale che vive in ognuno di noi e persino, dal punto di vista sessuale, presiede alla garanzia che la specie umana si perpetui? Una considerazione: la radice di violenza è Vi-, da cui Vis, “Forza”, e anche Vir, “Uomo di valore”, diverso da homo, “uomo biologico”. Anche etimologicamente il giudizio sulla violenza non può essere univoco. La reazione auto-indotta cui lei faceva riferimento, sebbene sia socialmente repressa, ha però in sé le cifre della propria guarigione poiché è attraversamento della patologia. Se ci soffermiamo sulle conseguenze immediate, l’evidenza ci ripugna; se accettiamo di attendere invece le conseguenze sul lungo tempo, ove alla violenza come innesco segua un processo animico, ebbene le sorprese potrebbero essere straordinarie. Mi pare chiaro che a questo tipo di violenza Blu, cioè trasformativa, non associo di certo gli atti violenti di per sé, ovvero le conseguenze gravi e tristi di un avvitamento psicotico ingiustificabile che causi danni, soprattutto a terzi. Anche lì, dal punto di vista della psicologia del profondo, potrebbero aprirsi interessanti panorami da sondare, ma non è certo operazione che ci si possa permettere sulla pelle degli altri. Spero di essere stato chiaro nell’esposizione della mia posizione rispetto alla sua importante domanda».

Pietra runica di Rök, Östergötland, Svezia

Pietra runica di Rök, Östergötland, Svezia

A Catania, ma non solo, lei è un personaggio molto noto per le diverse qualità su esposte, ce n’è qualcuna della quale sarà pure stanco di rispondere, ma gliela pongo ugualmente: i tatuaggi visibili sin dal volto, e praticati in tempi in cui non era facile trovare persone col tatuaggio in volto. Hanno un significato specifico o sono semplicemente dei richiami ad un piacere estetico?
«Mi stanco di rispondere solo alle false domande, quelle nelle quali è retoricamente insito un giudizio, abitudine pessima e diffusa. Invece ho sempre piacere ad interloquire in nome del chiarimento reciproco, della sana curiosità, e ogniqualvolta individuo nello sguardo e nei toni di chi chiede una reale apertura al confronto. Questa è salute. Del resto, non posso fingere che la mia acies risulti anodina e non susciti quantomeno sorpresa. Di certo nessuno dei miei tatuaggi ha valore puramente estetico. Riconosco anzi che alcuni di essi possano risultare, alla mera percezione sensoriale, persino sgradevoli. Tuttavia la mia esperienza del mondo da tatuato – estremo, direi – non è stata mai influenzata negativamente da tale caratteristica. Anzi, superato il primo impatto spiazzante, mi vien quasi da dire che i miei tatuaggi abbiano favorito modalità relazionali altre, più intime e fertili. Il pro di questa mia scelta – che ha una sua storia – e assolutamente auto- referenziale: essi sono l’epifania di un dialogo interiore, il suggello visibile d’un percorso. Le mie sono cicatrici d’anima affiorate al livello della cute, com’è noto il luogo psico-corporeo più esposto al contatto col mondo: i miei tatuaggi – secondo il mio sentire – identificano me a me stesso e, al contempo, definiscono me in relazione all’Altro. Essi sono la mappa d’un cammino scosceso ma felicitante, attraverso il quale, soggettivamente, esisto entro la mia esperienza di vita. E hanno supportato il mio personale processo di localizzazione della mia anima all’interno del reticolo universale nel quale ognuno ha il proprio posto. Sono un uomo fortunato, da questo punto di vista: ritengo di sapere so chi sono e dove sono, chi posso essere e dove possa muovermi, nella consapevolezza di trovarmi permanentemente affondato nel blu trasformativo. E ciò, per me, è bellezza e grazia. Certamente anche impegno, poiché la responsabilità di apparire in certi modi è, per un uomo pubblico, motivo di costante Presenza e Vigilanza, senza rigidità, nell’accettazione e nella chiarezza maggiore possibile. Un gran bel lavoro».

Dettaglio del volto di Giorgio De Luca

Dettaglio del volto di Giorgio De Luca

Per finire, un dettaglio non da poco emerge dal suo nuovo romanzo: la numerazione runica dei capitoli è indice di quel ritorno al mondo germanico, alla forza, alla determinazione?
«La numerazione runica dei capitoli di “Sulfur” risponde al desiderio di ancestralità che le rune mi hanno offerto, forse per mia deformazione culturale. Avrei potuto scegliere altri codici di riferimento, ma la tradizione norrena ha invero legami molto intimi con la nostra cultura, costituiti nel tempo dal rapporto forzoso con le matrici greco-latine. Basti ricordare le trasformazioni culturali e sociali successive all’invasione germanica dell’Impero Romano; alla costituzione del Sacro Romano Impero, fondamentalmente esteso tra Germania e Italia, in una reciproca trasmissione e integrazione di elementi culturali che il presente ha dimenticato, quando non rinnegato in seguito agli esiti della Seconda Guerra mondiale e agli abomini che in essa sono stati compiuti. Ciò però non basta a cancellare i simboli d’una realtà millenaria che trascende lo svilimento poi posto in essere dalla crudeltà cieca, e ignorante, dell’uomo. L’ancestralità suddetta mi ha anche suggerito un senso di sacralità antica, e originale, che mi è parsa adatta a computare le fasi del procedere di “Sulfur”, il quale – per come è narrato – mi porta alla memoria più le vicende battagliere del Valhalla che quelle di un non meglio identificato mondo divino, peraltro mai descritto né dal Cristo, né dai Padri del Cristianesimo. Nelle rune ho avvertito un respiro di sacro che non avrei trovato altrove. E questo è quanto».

Una tabella di numerazione runica: futhark antico

Una tabella di numerazione runica: futhark antico

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