Blog Di notte continuo ad alzarmi spesso perché non posso dormire e, per alleviare i pensieri che nel buio si ingigantiscono come massi poderosi, esco sul balcone stringendomi a me stessa nell’angolo meno esposto all’umidità notturna...
Spesso di notte non posso dormire e, per alleviare i pensieri che nel buio si ingigantiscono come massi poderosi, esco sul balcone stringendomi a me stessa nell’angolo meno esposto all’umidità notturna. Aspetto che arrivi o l’alba o il sonno mentre osservo le auto che sporadiche filano veloci sul lucido asfalto.
Vivo in un complesso di edifici sul lungomare cittadino in cui alloggiano numerose famiglie della media borghesia che, pur abitandovi da tempo, si salutano appena. A fianco del mio palazzo campeggia la mole cospicua di una costruzione, un tempo destinata a nosocomio cittadino e da anni abbondonata. Ignobile destino per un immobile gigantesco e costosissimo, lasciato in balìa a furti, atti vandalici ed usato spesso come discarica abusiva. In una di quelle notti insonni, una fiammella nel buio del mostro disabitato attirò la mia attenzione: immediatamente mi allarmai, perché pensai ad un bivacco di balordi che avrebbe potuto provocare un incendio o architettare dei furti nei nostri appartamenti, in fondo siamo separati soltanto da un comune muro. Stavo per allertare qualcuno quando la finestrella, da cui proveniva la fiammella, schiuse, nei pochi centimetri di apertura, una scena casalinga: una ragazza passeggiava cullando un piccolo bambino, ed appariva e scompariva alla mia vista in un avanti ed indietro ritmato, forse, da una nenia consolatrice di mamma.
Rimasi con il fiato sospeso fino a quando, col principiare del giorno, la fessura si richiuse al mondo sigillando quel focolare domestico anomalo e provvisorio. Non ne parlai con nessuno, neanche con la mia famiglia, ma cominciai, in più ore del giorno, ad appostarmi nell’angolo estremo del balcone della mia cucina in modo da poter tenere d’occhio la finestra ed il piccolo portoncino che da quella parte dava accesso a quella camerata dell’ospedale in disuso. Avevo cominciato a credere di essere stata vittima di un’allucinazione quando finalmente li vidi. Era un’alba di agosto, e la grande calura aveva probabilmente fatto evaporare la loro prudenza. Immaginai all’interno della camerata abbandonata l’aria soffocante ed irrespirabile mischiata all’odore dei giacigli di fortuna, e del cibo lasciato ad irrancidire all’aria.
La coppia stava lì immobile e taciturna tenendosi per mano, illuminati in pieno dalla luce: giovanissimi, osservavano una piantina spuntata prepotente tra gli infissi sbeccati della finestra; la guardavano perché, come loro, essa cercava riscontro a torti di antica data, ma il resistere era un castigo più grande che il cedere.
Improvvisamente la mano di lei si svincolò da quella di lui, attirata da un qualcosa dall’interno del rifugio; ebbi così certezza della presenza del piccolo che adesso – lo sentivo con chiarezza – piangeva reclamando il latte. Si rintanarono veloci serrando le loro vite ai pericoli di un giorno che spuntava.
Non ebbi mai il coraggio di farmi vedere, o forse fu la cautela a non spingere oltre i miei passi. Li vidi solo un’altra volta, per strada: loro due sempre attaccati con il piccolo in collo. Non possedevano neanche un passeggino, o forse non lo volevano perché avrebbe potuto attirare su di loro l’attenzione. Avrei potuto ma non ho fatto: perché la vera solidarietà non è procurare un passeggino ben conservato o un corredino dismesso, perché “Una terra è come la madre, lo Stato è come il padre e solo chi è stato prodotto dalla madre e dal padre ha diritti; tutti gli altri sono bastardi !”*
Non li vidi mai più. Forse qualcuno si era accorto di loro ed erano andati via per proteggere il piccolo.
Nel loro stare attaccati in una terra straniera c’era l’insidiosa condizioni di clandestini, nelle cui menti strazia il distacco dalla terra natìa.
Per loro il tempo di dover abbandonare le proprie cose, i propri affetti mai può essere bastevole, e mai disposizione d’animo può far sentire un profugo pronto.
Di notte continuo ad alzarmi spesso perché non posso dormire e, per alleviare i pensieri che nel buio si ingigantiscono come massi poderosi, esco sul balcone e cerco nel buio di pece la fiammella che mi ha acceso il cuore… ma vedo solo auto che nell’illuminazione notturna, sporadiche, filano veloci su un asfalto talmente lucido che pare bagnato di lacrime.
* da “Un giorno della vita di un immigrato clandestino”
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