Libri e Fumetti Un nuovo talento del giallo è il palermitano Giorgio Glaviano. Ha scritto un romanzo interessante, ben strutturato e dal buon ritmo narrativo. E narrando le sue storie racconta Palermo. Protagonista del suo libro “Presto verrai qui”, edito da Marsilio, è l’ispettrice di polizia Melina Pizzuto, personaggio sui generis che non ha l'acume dei grandi investigatori della storia letteraria ma possiede una capacità notevole di arrivare fino in fondo
Un nuovo talento del giallo è il palermitano Giorgio Glaviano. Ha scritto un romanzo interessante, ben strutturato e dal buon ritmo narrativo. E narrando le sue storie racconta Palermo. Protagonista del suo libro “Presto verrai qui”, edito da Marsilio, è l’ispettrice di polizia Melina Pizzuto, un personaggio sui generis.
Pizzuto non ha l’acume dei grandi investigatori della storia letteraria ma possiede una tenace ostinazione, una capacità notevole di arrivare fino in fondo, e sa far funzionare il cervello in maniera logica e pragmatica. Ha un fiuto concreto supportato da una volontà ferrea. E’ coraggiosa e onesta, proprio a causa di un’indagine non autorizzata sui colleghi è stata cacciata da Roma e costretta a tornare nella sua città, Palermo.
Lo scrittore fa emergere chiaramente il suo carattere, una donna dalla schiena dritta, palesando il suo passato romano: “(…) l’ispettore Carmela Pizzuto, detta Melina, era tornata da Roma, dove aveva vissuto negli ultimi dieci anni, a Palermo, città in cui era nata trentacinque anni prima. La fine della permanenza nella capitale era coincisa con la denuncia che aveva mosso a mezzo commissariato – nel quale lavorava – per abuso di potere, minacce, atti di violenza e intimidazioni; metà ufficio, ivi compreso il suo compagno, Nino, poliziotto come lei: l’uomo di cui si era innamorata, quello che a un certo punto le era sembrato papabile come padre dei suoi figli e che ora poteva considerare ufficialmente un ex, nel senso di amante, non di sbirro, ché quello lo era rimasto, protetto dalla professionale e collegiale omertà dei colleghi romani. Melina era quindi in un momento particolare della sua vita, da un punto di vista sia umano che professionale. Era considerata una stronza con cui era preferibile non lavorare da tutti i poliziotti dal Lazio in giù, e pure i magistrati – anche se con meno enfasi dei primi e senza ricorrere a epiteti offensivi riferiti alla sua sfera sessuale – preferivano tenerla a distanza. E ci si metta pure che Melina nella Città Eterna alla fine, anche se con qualche fatica, aveva iniziato a trovarcisi bene. Si era perfino fatta dei surrogati di amici, tutti rigorosamente non romani – ché quelli lei non riusciva a spiegarsene la ragione, ma anche dopo dieci anni le restavano inafferrabili».
Melina è una donna onesta, animata da ideali autentici di legalità, non retorici ma concreti. Talmente concreti che non esita a denunciare l’uomo che ama: “Ma che avrebbe dovuto fare dopo aver scoperto quel giro strano di volanti che andavano e venivano senza motivo, turni alterati, denunce sparite, ricoveri in ospedale di sospettati, testosterone fuori controllo, clima di terrore nelle strade del quartiere? Melina non poteva chiudere gli occhi, e soprattutto non voleva: così aveva indagato, di nascosto. Mentre raccoglieva prove e indizi, ci aveva anche provato a far rinsavire per tempo il suo fidanzato Nino, abruzzese di origine, ma niente, lui le aveva opposto sempre quel suo sorriso sbruffone che quando se lo ricordava la faceva tremare ancora come la prima volta che l’aveva visto, con il suo fisico scolpito e le mani… quelle mani che le facevano sempre venire in mente i versi della canzone “Ti sento” dei Mattia Bazar, quando la voce di Antonella Ruggiero avviluppa tutti e cinque i sensi intonando: ‘Ti sento. Bellissima statua sommersa. Seduti, sdraiati, impacciati”. Due anni di convivenza e quattro mesi finali di menzogne. La verità le era esplosa in faccia: Nino si era messo a giocare al vigilante con i suoi colleghi picchiando spacciatori senegalesi, massacrando ruffiani albanesi, bastonando borseggiatori zingari e topi d’appartamento georgiani”.
Non le avevano dati encomi o medaglie per il suo coraggio, non era stata messa in evidenza la sua integrità. Anzi, era iniziato il suo declino. “Melina l’indomani era andata dal magistrato a incriminare lui e mezzo commissariato, con l’unico risultato di vedersi rispedire a Palermo: trasferita per «incompatibilità ambientale», questa la formula usata dai superiori per giustificare burocraticamente il suo allontanamento. Le indagini per abuso di potere a Roma andavano avanti, condotte in pratica dagli stessi denunciati. Ora, in teoria, Melina era in servizio alla Mobile palermitana, e quindi era ancora un ispettore operativo, ma in pratica non faceva nulla da sessanta giorni, tranne scaldare la seduta della sedia con le natiche e il piano della scrivania con gli avambracci”.
Sembra che debba rassegnarsi a vivere in un angolo, ma il suo fiuto da vera poliziotta le fa intuire un’ indagine significativa in una vicenda fortemente sottovalutata dagli altri. “Quando, a causa dell’ennesima presa in giro da parte degli altri poliziotti, un’improbabile vedova si presenta per denunciare la vicina, che le avrebbe insozzato la cappelletta votiva con uno straccio lercio, per l’ispettrice la misura è colma, e medita di mollare. Quella pezza si rivela però essere una maglietta, e il sudiciume sangue, tanto sangue, forse umano. Melina per sopravvivere si attacca disperata a quello che lei stessa definisce “un mezzo caso” ma che, tra indizi spaiati, intuizioni fortuite, vicoli ciechi e ipotesi barcollanti, alla fine la porterà a scoprire un delitto scellerato, di quelli che apparentemente appaiono perfetti. Sola e contro tutti, con l’eccezione di Angelica, l’unica collega che per sfinimento riuscirà a convincere ad aiutarla, la caparbia ispettrice dovrà immergersi nel dedalo doloroso del suo passato e di quello antico e oscuro di Palermo per scovare l’insospettabile assassino.
Ora, però, se la Colleferro, quel 15 giugno, avesse presentato la denuncia a uno qualunque degli altri ispettori della questura, la cosa si sarebbe risolta con un verbale svogliatamente compilato e poi cestinato, qualche risata cameratesca alle spalle della vedova, e poi nessuno ci avrebbe pensato più.
A dirla tutta non ci avrebbe più fatto mente locale nemmeno la stessa Colleferro, dato che sua madre proprio quella sera avrebbe avuto un attacco di cuore e sarebbe stata proprio la famigerata vicina, la Passalacqua, ad accompagnare lei e l’anziana donna all’ospedale Civico con la sua vecchia Panda, di fatto salvandola: il che dimostra che i dispetti, le strurusarìe, come la chiamano a Palermo, purtroppo fanno parte delle regole del buon vicinato, ché davanti alla morte cristianamente ci ritroviamo invece tutti, anche se per pochi attimi, come tra fratelli e sorelle”.
Melina girando per Palermo, durante le sue indagini, incontra personaggi originali:
«Vede? Lei si fa beffe del significato nascosto del mondo. Il termine “simbolo” deriva dal greco e significa unire; “diavolo”, dal greco anche questo, significa invece dividere» declamò soddisfatto.
«Ma non mi dica» replicò allora lei seccata, pentendosi di aver ceduto a quell’inutile conversazione.
«Lei è scettica» la punzecchiò il vecchio.
«Più poliziotta».L’uomo arretrò impercettibilmente, come ogni buon palermitano al cospetto di quella parola, poi la soppesò scandagliandola dalla testa ai piedi. «Io professore di storia» disse infine.
«Non avevo dubbi» rispose lei restituendogli la pesata con gli occhi.
«Come mai è interessata al nostro Genius Loci?»
«Così, cultura personale» tagliò corto Melina dando una rapida occhiata all’orologio da polso dell’uomo, chiedendosi quanto tempo ancora avrebbe dovuto dedicargli e poi vagando intorno con lo sguardo in cerca della cappelletta della Colleferro.
«Sa perché stringe il serpente?»
«Il re? No»
«Il rettile rappresenta Scipione l’Africano»
«Davvero?» farfugliò distratta.
«Quello che lei chiama re in realtà incarna la città di Palermo, che aiutò nella sua spedizione contro Annibale e i cartaginesi il condottiero Scipione, simboleggiato da un serpente. Dato l’esito felice della guerra, si narra che lo stesso conquistatore abbia donato alla città siciliana una conca aurea con al centro la statua di un guerriero che nutriva un serpente. Il termine “Conca d’oro”, con cui è conosciuta Palermo, secondo alcuni deriverebbe da lì».
La storia è avvincente. Come farà a risolvere il caso? Non vi resta che leggere il libro per scoprirlo…
Chi è Giorgio Glaviano
Nato a Palermo nel 1975, lavora come sceneggiatore per il cinema e la tv. Ha pubblicato due saggi sulla serialità americana e i romanzi “Sbirritudine” (Rizzoli 2015) e “Il confine” (Marsilio 2019), da cui è stato tratto il film “Ai confini del male”, con Edoardo Pesce e Massimo Popolizio, diretto da Vincenzo Alfieri e sceneggiato, fra gli altri, dallo stesso Glaviano. “Presto verrai qui” (Marsilio, 2022) è il suo ultimo romanzo.
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