Blog Chissà se il piccolo Tancredi Altavilla, alunno di una scuola media di Palermo, immagini quanta storia portino sulle spalle il suo nome e cognome. Nel galoppo dei Normanni, di quegli uomini alti, biondi e muscolosi, c’erano il sudore della fatica e della conquista e le tessere genetiche pronte ad ibridarsi in un domino arrivato dal lontano oriente. Certo Tancredi non lo sa. A mala pena sa dove si trova la Francia
Nelle gelide e deserte contrade del Nord il sole latitante ed il freddo pungente rendevano poco feconde le terre coltivabili strappate a fatica ai fiordi scoscesi; gli esigui raccolti alla fine convinsero gli uomini di quei luoghi ad abbandonare la vanga e cercare altrove migliori possibilità; come di solito avviene, tutto ciò che è dettato da una urgenza concentra la mente su un obiettivo preciso non immaginando quali altre impensabili vicende si possano generare come effetti collaterali. Il popolo dei vichinghi dunque ignorava che in tempi ancora troppo lontani la loro esistenza avrebbe determinato esiti biologici fantastici mischiando le carte genetiche nel modo che solo un croupier bizzarro come la natura sa fare. Guerrieri pagani dall’alta ed imponente statura, dagli occhi cerulei e dalle lunghe e pallide capigliature si spinsero alla ricerca di nuovi approdi.
Quando le vele delle loro navi si profilavano all’orizzonte dei litorali dei paesi del nord Europa un brivido di terrore pervadeva gli abitanti delle coste e non c’era difesa che potesse fronteggiare i temuti saccheggi. Di loro si diceva che fossero uomini senza Dio e che facessero della violenza la loro più potente arma di convinzione; una fama spaventevole li precedeva sulle creste di quei mari burrascosi che sospingevano le loro navi cariche di minacce e tristi presagi. Ma non era solo la costa a dover temere la messa a ferro e fuoco: tremavano anche i borghi più interni; infatti le imbarcazioni vichinghe, dallo scafo piatto erano agili anche nel risalire il letto dei fiumi consentendo l’addentrarsi tra le anse fluviali nelle cui radure si affollavano piccoli villaggi. Questi risultavano appetibili per le loro costruzioni, le greggi e soprattutto per le preziose fonti di acqua potabile.
Conquistati dalle amenità dei luoghi, quei barbari posero con forza la loro dimora nei meandri della Loira e della Senna ed a questi legarono il loro e l’altrui destino. Per consolidare meglio la conquista non rimaneva che assoggettare il potere locale che, frammentato e sempre impegnato in lotte intestine, si frantumò come cocci di cristallo. Dopo vani ed inappropriati tentativi di difesa, gli eserciti francesi si piegarono alla bionda orda sanguinaria; l’allora re, Carlo III fu dunque costretto a far buon viso alle avverse circostanze e lo fece nei modi regali di un sovrano: abbracciò l’invasore nemico facendolo diventare suo vassallo e riconoscendogli quei territori che presero appunto il nome di Normandia. Quella rozza gente d’armi alla fine saccheggiò non solo terre e titoli ma anche quei rudimenti di civiltà che sconosceva totalmente. Il capo dei vichinghi all’epoca della vicenda era Rollone; Sebbene gli venisse difficile saper trattare, intuendo bene i motivi dell’ opportunità, imparò l’arte della diplomazia e, con il Trattato di Saint-Clair-sur-Ept nel 911, ottenne formale legittimazione a duca di Normandia. Due cuori politici ed una grande capanna convinsero i due statisti a tenersi reciprocamente a bada: Rollone si fece battezzare, sposò la figlia illegittima di re Carlo ed impose ai suoi soldati di ventura ad abbandonare il loro credo religioso per abbracciare come lui, la religione cattolica. Re Carlo, di contro, pretese dallo scandinavo l’impegno di proteggere il regno di Francia da future invasioni di altri popoli del Nord. I vichinghi, diventati Normanni, dimenticarono ben presto l’aspro clima natale e fecero proprio il dolce idioma locale; la disponibilità di cibo rese favorevole una stabile crescita demografica che fu ingrediente primario per la proficua patisserie génétique con cui si presentarono alle lontane genti del Sud dando il loro contributo al già variegato mosaico fisionomico.
Se gli agi conferirono al popolo dei nuovi francesi una vita comoda, i loro capi si rifiutarono di farsi corrodere dalla ruggine della stanzialità e, diventati il braccio armato del cattolicissimo re, non sentirono mai diminuire la loro indole guerriera che funzionò da chiave magica per altre ardite imprese. Nell’affilata lama dell’inquieto Rainulfo Drengot d’Alencon, l’offerta prezzolata per la protezione ai pellegrini diretti in terra Santa, fu l’occasione sperata. Il lungo viaggio verso Gerusalemme rappresentava per i fedeli la possibilità di recarsi nei luoghi primi del credo cristiano e lì, rendere omaggio alle antiche reliquie; per il popolo guerriero che li scortava , convinto che Dio fosse sempre dalla loro parte, il percorso diventava missione ed acquisiva il significato di congiungimento tra dimensione umana e sacralità religiosa. Nella tappa prevista presso il santuario di monte San Michele Arcangelo sul Gargano, oltre al momentaneo riposo dalle fatiche fisiche, si rafforzava la fede di tutti; nella cornice mistica di un santuario che si diceva fosse stato consacrato direttamente dall’arcangelo guerriero Michele, eletto a patrono dai Normanni, preci e canti si innalzavano a lui che era già abituato al culto privilegiato nella lontana abazia di Mont Saint Michel arroccata sulle rupi della penisola del Cotentin.
Nella “Celeste Basilica” della foresta umbra, il drappello normanno ricevette un’altra inaspettata richiesta di aiuto. L’insediamento longobardo nel meridione d’Italia, stanco della presenza dei bizantini chiese a Rainulfo Drengot di cacciare i greci dalle terre di Puglia; forse pressati da quell’urgenza però, i Longobardi non si resero conto dei rischi del loro appello non sospettando che il rimedio sperato sarebbe stato peggiore del male conosciuto: infatti dalla Normandia e dalla Bretagna arrivarono in armi una moltitudine di cavalieri tra cui molti mercenari ed avventurieri di non certa specchiata virtù. I capi di quel contingente erano gli appartenenti alla famiglia Hauteville , il cui signore Tancredi, con un numero spropositato di figli e nessuna proprietà che li potesse mantenere, colse l’occasione di mettere la sua spada al soldo di chi lo volesse. Arrivati in Puglia, non ebbero mano leggera né scrupoli di alcun tipo. Il contingente normanno sfondò una porta aperta; infatti la qualità degli armamenti, la tenacia della morsa alle città fortificate, la superiorità tattica della cavalleria, ebbero facile ragione tra gli assediati sempre in forte dissidio tra loro.
La presenza dei nuovi conquistatori preoccupò l’allora papa Leone IX che vide in quel flusso d’immigrazione continua, che dalla Francia portava nuove e vitali forze, un pericolo al potere della Chiesa. Promosse così contro i “maledetti normanni “ una santa alleanza. Ma quando Roberto il Guiscardo, figlio di Tancredi d’Altavilla, polverizzò l’esercito papale a Civitate, il Papa invece di riarmare il suo esercito, temendo una ulteriore sconfitta si fermò a fare due conti: in fondo quella truppaglia , sottraendo il potere del meridione al patriarcato bizantino, lo aveva favorito riportando il Sud sotto il suo potere; inoltre l’ingenua religiosità dei normanni ne faceva un valido strumento sempre pronto a sguainare la spada nei confronti di futuri nemici del papato.
Leone IX aveva visto bene; infatti i vincitori gli si inchinarono ai piedi rassicurandolo che lo avrebbero protetto sempre nel nome di Dio. Il Papa di contro fu munifico e a Roberto il Guiscardo conferì i ducati di Puglia e Calabria e la signoria della Sicilia. Fu così che avvenne lo sbarco normanno in Sicilia. Nulla sarebbe stato come prima: il vento del nord avrebbe portato con sé l’anticipo di una idea di stato moderno mai sperimentato in precedenza. A Roberto il Guiscardo seguì Ruggero d’Altavilla che sviluppò ulteriormente le caratteristiche diplomatiche offrendo agli arabi che già vivevano in Sicilia la collaborazione tra le forze stranieri ed applicando la libertà religiosa, impensabile in altri posti dell’Italia. Il mélange di culture insegnò la convivenza pacifica che assunse e trovò nella tolleranza il suo punto di forza e quello di partenza per un popolo quello siciliano da sempre scevro da ogni pregiudizio razziale e religioso.
Chissà se il piccolo Tancredi Altavilla, alunno della III C della scuola media del quartiere di Resuttana/Colli di Palermo, immagini quanta storia portino sulle spalle il suo nome e cognome e quanto zolle di terra gli zoccoli roteanti dei cavalli abbiano dovuto smuovere correndo all’impazzata e macinando selle e chilometri. Se nel galoppo di quegli uomini alti, biondi e muscolosi c’era il sudore della fatica e della conquista c’era anche l’aroma delle resine dei boschi lontani della Normandia, le immagine di coste alte e frastagliate e, le tessere genetiche pronte ad ibridarsi in un domino arrivato dal lontano oriente. Certo Tancredi non lo sa, a mala pena sa dove si trova la Francia.
Egli è certo di essere nato a Palermo, un tiepido giorno di giugno, in un ospedale sporco di una città sporca. Eppure i suoi capelli biondissimi, fili d’oro che calano indocili sulla fronte, lasciano intravedere occhi neri che sono ossidiana pura e che tanto seducono le sue compagnette; mentre sorride ed ammicca come solo un siciliano sa fare, il bagliore vulcanico del suo sguardo, la sua postura, il modo di camminare rivelano nell’avvenuta accensione e nello spegnimento di geni, i guizzi raffinati o gli zotici segni di antiche memorie genetiche.
La magica ed ineffabile scelta inconsapevole di un grande esperimento biologico diventa così cruciale assortimento delle tempere di un moderno Van Gogh che ha tracciato e continuerà a farlo un profilo cromatico di un popolo che sa essere abbietto esempio di servilismo e di viltà ma anche opera d’arte vivente sullo sfondo pittorico di un Regno del Sole.
Commenti