Blog Il 24 maggio compie 80 anni il ragazzo ebreo che è la parte migliore di noi, ragazzi degli anni Sessanta, e la parte migliore dell’America della "nuova frontiera" che non si può non amare. Dal country al rock, dalla roca protesta all’arcadia ecologista, dal "clown lacero" e "mistery tramp" al miliardario ottantenne, i tempi cambiano, come recita una delle sua canzoni più famose. Ma resta l’inquietudine, e resta soprattutto la poesia, immortale, perché contiene le vite di tutti
The times they are a-changin. Stanno cambiando, i tempi. Così parlò Bob Zimmerman, il ragazzo ebreo che è la parte migliore di noi, ragazzi degli anni Sessanta, e la parte migliore dell’America, dell’America che non si può non amare, quella della “nuova frontiera” e di “I have a dream”, di Easy Rider e Blowin’ in the wind, di Steinbeck e di Springsteen, non l’impero della finanza e delle multinazionali, non lo schiacciasassi dell’omologazione planetaria, non l’America da odiare della sedia elettrica e del Vietnam, di E. J. Hoover e oggi di Trump.
Bob Dylan il 24 maggio compie ottant’anni. E cambiavano e come, i tempi, da quei suoi e nostri anni ’40 di guerra e dopoguerra. Un cambiamento epocale, vertiginoso, da allora ad oggi, come mai di così drastici ne ha visti la storia lungo l’arco d’una sola esistenza. Cambiavano fin da quei primi anni Sessanta quando Bob prendeva in prestito il nome del grande Dylan Thomas e attraversava mezz’America alla ricerca di Woody Guthrie: un poeta il primo, e l’altro un musicista, due vite segnate, due angeli ribelli. E fin da quando – ed era ancora il ’62 – Bob si scrisse sin dall’inizio il suo epitaffio, che lo mette ancor oggi al riparo da critiche di incoerenza o peggio di “integrazione”: «Quante strade deve percorrere un uomo / prima di poterlo chiamare un uomo …».
Già: «e quante volte deve un uomo guardare in alto / prima di poter vedere il cielo». Siamo nei favolosi Sessanta e «la risposta soffia nel vento», che si leva dai ghetti neri con Martin Luther King e dai salotti liberal con Bob Kennedy. E dalle comunità hippies, dall’isola di Wight, dal mito dell’erba e perfino dell’acido, dal variopinto, nirvanico e sfortunato american dream dei “figli dei fiori”.
The times they are a-changin’: «il perdente di adesso / sarà domani il vincente / perché i tempi stanno cambiando». Tant’è che Dylan dedica le sue più belle canzoni a sbandati e a diseredati, a chi vive «like a complete unknown, / like a rolling stone»; ed eleva a mito addirittura uno spacciatore: «ehi mister tambourine / suona una canzone per me / … sono pronto ad andare ovunque / sono pronto a svanire / … getta verso di me il tuo incantesimo di danza …». Qualcuno, prima di lui, aveva scelto la compagnia di pubblicani e prostitute.
Dal country al rock, dalla roca protesta all’arcadia ecologista, dal Dylan «clown lacero» e mistery tramp al Dylan miliardario ottantenne, i tempi cambiano. Ma resta l’inquietudine («I can’t stay in here»), e resta soprattutto la poesia: già, perché «she takes just like a woman». E la poesia è immortale, perché contiene le vite di tutti, e continua a vivere nelle vite che continuano a nascere, perfino in quelle minuscole delle “foglie d’erba” cantate dal Grande Padre d’oltreoceano, quel Walt Whitman che “conteneva moltitudini” e col suo possente vitalismo sfidava la morte: «il più minuto germoglio mostra che la morte non è, / e che semmai essa fu, indusse alla vita, e non attese il termine per fermarla, / e che cessò l’istante che apparve la vita». E ancora Whitman: «Guarda la tua forma, il tuo aspetto, persone, sostanze, animali, alberi, i fiumi correnti, le rocce, le sabbie. / Tutti contengono gioie spirituali, che più tardi emanano; / come può il corpo vero morire e venire sepolto? / Del tuo vero corpo, e del vero corpo di ciascun uomo, di ciascuna donna, / ogni elemento sfuggirà alle mani dei becchini trasmigrando verso sfere appropriate, / seco recando quanto l’ha arricchito, dall’istante della nascita all’ora della morte».
Ma è ancora dal Nuovo Continente che a quel grande veggente ottocentesco fa eco Bob Dylan, che già nel 1988 aveva composto e cantato Death is not the end, e oggi nella canzone non a caso intitolata I countain multitudes annunzia spavaldo: «Dormirò con vita e morte nello stesso letto».
Grazie, Bob, di averlo fatto per noi, che ti auguriamo altri ottanta di questi anni terribili ed entusiasmanti.
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