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Il rapimento di Giulio Cesare

Blog Il suo debutto in pirateria stupì la ciurmaglia ed i capi, che lo avevano definito inizialmente un mezzo idiota: amava fare sedere i pirati a semicerchio sulla spiaggia, e qui li sottoponeva alla sua oratoria, sollecitando a volte con malgarbo la loro approvazione...

La piccola flotta  patrizia procedeva sicura su quel mare che l’orgoglio di un popolo fiero accentrava a sé fino all’ultima molecola d’acqua tanto da fare dell’aggettivo “nostrum” un privilegio  riconosciuto anche dai nemici più lontani. Ma se lungo le coste italiche e greche vi era la completa assenza di timore, tanto che il mare sembrava il lago privato di Roma, così non era quando ci si spingeva lungo i tratti dell’Asia Minore dove le scorribande dei pirati rendevano questi i padroni del mare. Con le loro liburne veloci accerchiavano le navi mercantili per derubarle del carico destinato alla lontana provincia romana.

Liburna romana incisa nella Colonna Traiana

Quel piccolo convoglio però non portava merci ma aveva una precisa missione: accompagnare il giovane Giulio Cesare nel suo esilio lontano da Roma; egli infatti era stato condannato da Silla all’esilio per aver sostenuto, forse senza neanche troppa convinzione, il partito di Mario, e si era ritrovato coinvolto nelle purghe nei confronti di tutti gli oppositori politici, molti dei quali furono uccisi. Tutto sommato gli finì bene grazie all’intercessione di alcuni amici influenti.

Alla   partenza del convoglio il mattino era limpido e splendente, il mare liscio ed immobile, quasi che le divinità con quella bonaccia volessero scoraggiare il suo allontanamento da Roma. Ma Cesare, che poco credeva agli auspici, lesse in quel viaggio di cui ne intuiva la provvisorietà, l’opportunità di poter coltivare i suoi studi, approfondire l’innata vivacità di spirito ed arricchire di nuove esperienze la sua smodata ambizione. La misura del suo benessere era sempre superiore a quello dell’afflizione e chiese per il suo viaggio di circondarsi di maestri di ginnastica, di oratoria e di greco per addolcire l’aurea negativa della proscrizione. Il viaggio per mare procedeva alternando la navigazione a vela, al largo, e quella a  remi quando il mare lento rendeva flosce le vele. Gli incredibili scenari   così si succedevano come proiezione di un film, sostituendo, intervallati nel tempo, le gonfie masse di acqua e di cielo alle verdeggianti concentrazioni di palmizi che la   costa, ora frastagliata ora bassa e sabbiosa, offriva. La natura marcava stretta la psicologia degli equipaggi: mentre i treni di feline onde gigantesche  spaurivano l’animo ed imponevano un’attenzione vigile per le improvvise manovre di  controllo e riduzione delle vele , la vegetazione che svettava  alta e verde nelle placide lagune dava un senso di pace  e sicurezza con le radici che sembravano piantate direttamente nell’ acqua.

Le giornata a bordo scorrevano ritmate dalle operazioni legate alla costante e minuziosa manutenzione, rimedio a tutto ciò che l’insulto del mare riservava allo scafo, alla velatura, agli alberi. Ma, via via che ci si allontanava da Roma, il pericolo non si annidava solamente nella devastante usura della salsedine, del sole e delle scogliere foranee  affioranti a pelo d’acqua, ma anche a ciò che dalle cale nascoste poteva all’improvviso svelarsi e che rappresentava per i marinai il vero terrore. Fu così che tra le Sporadi meridionali, costeggiando l’isola di Farmacusa a sud di Mileto,  un puntino, dapprima lontano, fece scattare l’allarme, ed in men che non si dica, fendendo l’acqua veloce, si realizzò in tutta la sua imponenza nefasta: erano i famigerati pirati della Cilicia, quelli che infestavano le acque dell’Asia minore e che non risparmiavano nessuna delle navi romane che si spingevano nella lontana provincia di Roma.

Cesare che era impegnato nella composizione di una poesia,  fu subito avvisato dal suo capitano ma non si scompose  ed invitò gli equipaggi alla calma riservando a sé stesso la diligentia e la prudentia nella conduzione delle trattative. Obbligò i suoi precettori ad indossare la tunica di rappresentanza  e li pregò di affiancarlo, ma  rimanendo silenziosi. La liburna dei pirati affiancò la loro nave e gli equipaggi rispettivi si scrutavano nell’abbagliante riverbero del sole.

Il nostromo, staccandosi dall’ equipaggio schierato in ordine sul ponte, invitava il capo della ciurmaglia a salire sulla tolda romana con un ossequio inaspettato per il predone. Il misero pirata, pur essendo il capo, fu smontato da quella accoglienza raffinata: niente intimidisce di più l’uomo rozzo quanto il confronto con quello elegante e colto. In quel momento, sia pur per un momento, si vergognò dei suoi piedi incalliti, degli stracci che aveva indosso, del suo puzzo corporale e con gesto insofferente tacitò la ciurmaglia rumoreggiante che gli stava dietro quasi volesse prenderne le distanze.  Cesare lo invitò sorridendogli amabilmente, e questo disorientò ancora di più il predatore che non sapendo replicare civilmente venne subito al sodo dichiarando le intenzioni di un sequestro. Cesare assentì e, dopo un silenzio che sembrò interminabile per tutti, chiese la cifra del riscatto. «Venti talenti» replicò il pirata, conscio dell’enormità della richiesta.

Avvenne allora che la diligentia e la prudentia  si dileguarono e Cesare ebbe uno scatto incontrollato che spiazzò tutti; si alzò in piedi e con sprezzo disse: «ma lo sapete Voi con chi state parlando? Sapete Voi chi sono Io? Io sono Caio Giulio Cesare della gens Iulia, che annoverava tra i suoi antenati anche il primo e grande re romano, Romolo, e discendo da Iulo, figlio del principe troiano Enea figlio a sua volta della dea Venere. No! non potete pensare di chiedere solo venti miseri talenti perché io ne valgo almeno cinquanta!»

Tutti trasalirono all’ eccentrica sparata; i marinai si guardarono tra loro così come fecero gli ufficiali e, lo stesso pirata non poté dissimulare la sua sorpresa. Più tardi, gozzovigliando  tra i suoi pari, avrebbe giurato sugli dei che in trenta anni di attività piratesca mai gli era capitato una cosa simile.
Si accordarono così per cinquanta talenti  e le tre navi romane furono inviate nelle varie città della provincia romana per mettere assieme l’intera cifra. Chiaramente i legati, su suggerimento dello stesso Giulio, avrebbero fatto leva sui magistrati di Mileto che, per non perdere la faccia con il governo centrale, si sarebbero mostrati efficientissimi racimolando in tutta fretta il denaro del riscatto.

Nel frattempo Cesare sbarcato a terra nel covo dei pirati insieme ai suoi due precettori ed al maestro di ginnastica, si godeva la vacanza fuori programma; ribaltò palesemente i ruoli di prigioniero e carcerieri imponendo a tutti allenamenti estenuanti  e una dieta sobria  e calibrata. Insomma, il suo debutto in pirateria stupì la ciurmaglia ed i capi che lo avevano definito inizialmente un mezzo idiota. Amava fare sedere sulla spiaggia a semicerchio i pirati e qui li sottoponeva alla sua oratoria, sollecitando a volte con malgarbo la loro approvazione, e quando il plauso non gli sembrava genuino li rimprovera e li insultava minacciando che a vicenda conclusa li avrebbe appesi a testa in giù sui pennoni delle loro navi. I pirati, ormai in confidenza, si divertivano a quelle che credevano battute,  e di lui vedevano solo un giovane simpatico, ben messo, dalla fronte alta, precocemente stempiata e forse un po’ sbruffone. Dopo poco più di quattro settimane, le navi romane tornarono cariche dei 1550 kg di argento, cioè del riscatto richiesto e, dopo la consegna, ci fu il commiato tra il giovane Giulio ed i pirati. Di tutti loro che in fondo erano bacati dalla brutta nascita, dai vizi e della deboscia egli ne tratteggiò il profilo e ne esaltò le potenziali qualità. La ciurma lo ascoltava silenziosa e commossa, dispiaciuta, in fondo, di non poter avere un capo così raffinato e comprensivo. Il piccolo convoglio romano ripartì così sicuro sulla propria futura incolumità ma, una volta allontanatisi, Cesare impose un cambio di rotta …..

Giulio Cesare Rimini

Rimini, statua di Giulio Cesare

I legionari romani, supportati da due trireme da guerra tornarono sulla piccola isola cogliendo di sorpresa la ciurmaglia: incendiarono le tende del loro accampamento e molti furono passati alla spade; i superstiti ammassati e divisi in gruppi videro, anzi vissero, le promesse gioviali del giovane Cesare che, divenuto serissimo,  fece impiccare agli alberi maestri delle loro navi i più anziani, mentre i giovani più aitanti furono mandati in catene a Roma affinché il popolo per una settimana potesse gioire  al Colosseo dei giochi gladiatorii, incitando i contendenti o aizzando le fiere di esotica importazione. Questo fu il dono  a gloria di Roma e al talento del giovane Giulio che, chiaramente, non restituì mai gli altri cinquanta (in fondo se li era guadagnati).

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