Blog La moltitudine di volumi ordinati negli scaffali costituiva il patrimonio culturale della piccola biblioteca di provincia. Un improvviso sussulto scosse tutto, come se sotto il pavimento passasse un bolide enorme. Il terremoto aveva spalancato la porta della sala grande consentendo una paradossale globalizzazione del sapere
La moltitudine di volumi ordinati negli scaffali costituiva il patrimonio culturale della piccola biblioteca di provincia. Anche qui si applicava il sistema decimale di Dewey che organizza il sapere in classi. La prima, la numero zero era, informatica ed opere generali; poi c’era la numero uno, filosofia e psicologia; poi, religione ed a seguire, scienze sociali; linguistica; scienze pure; tecnologia e scienze applicate; arte; letteratura e retorica ed in ultimo, geografia e storia.
Ogni classe poi veniva suddivisa in dieci divisioni, a loro volta distribuite in dieci sezioni. Classi, divisioni e sezioni diventavano così la carta d’identità dei libri, con cui facilmente potevano essere identificati e ritrovati.
Certamente quei tomi non erano consapevoli di tale sistemazione, ma nei differenti ripiani circolava la voce che fossero stati disposti simili tra simili, e questo diventava motivo d’orgoglio e di tristezza. Dalla frequenza con cui alcuni venivano consultati, dalle attenzioni rivolte loro dagli impiegati, intuivano anche che ci fosse tra loro chi godesse, presso il pubblico , di maggiore considerazione. Erano quelle le edizioni esclusive dei capolavori, il cui dorso ed iconografia di copertina rendevano immediato il valore del testo; a loro seguivano le edizioni appartenenti a collane editoriali di qualità, anche se di più recente manifattura industriale. Queste non perdevano occasione per ostentare la sovraccopertina con le alette laterali e facevano vanitosamente sentire il fruscio della carta sottile color avorio, di pregio superiore a quella bianca, sigillo inconfondibile di produzioni economiche. Stavano infine, in una saletta a parte, tutti gli altri volumi , che costituiva per la massa l’offerta della cultura e che si sentivano, spesso a torto, il pattume letterario degli anni duemila.
Nella luce, che, filtrando dalle alte finestre a nastro, diventava lama farinosa di pulviscolo illuminato, i libri spesso si annoiavano. I più anziani, sorreggendosi tra loro, si appisolavano, altri si tenevano in forma ripassando per diletto uno o due capitoli, scelti a caso. Ma tutti, tutti, dal più celebre al più umile, sapevano quanto era scritto in loro e lo avrebbero saputo drammatizzare, cantare e perfino ballare sulle note di qualunque genere musicale. Conoscevano a memoria l’impaginazione, gli impercettibili errori, i refusi, persino le orecchiette che, per svista, erano state fatte e poi, nel recupero della disattenzione, stirate da una mano, nel danno ormai fatto di un segno perenne. Gli habitués di quel luogo erano, di norma, lettori appassionati, qualche docente e ragazzi universitari; la biblioteca per annosa consuetudine, una volta a settimana, apriva le sue porte alle scolaresche.
La signora Adriana, bibliotecaria storica, accompagnava le visite didattiche e controllava che nessun libro sparisse nella confusione, come era accaduto a quella copia del don Chisciotte, che chissà adesso in quale libreria casalinga si aggirava smarrito, con stanco ronzinante e fido scudiero, tra i pericolosi mulini a vento di una abitazione privata. Ai giovani studenti l’impiegata sembrava decrepita, quasi quanto il manoscritto del Parini collocato sottovetro sul basamento in marmo, proprio al centro del vestibolo d’ingresso. La teca accoglieva, oltre al numero zero della biblioteca, la targa impolverata e quasi illeggibile con il nome del benefattore che, per disposizione testamentaria, aveva reso indispettiti i parenti per aver loro negato, per destinarlo alla fondazione, una parte cospicua del proprio patrimonio. La ventata di giovinezza irrompeva chiassosa tra i gli scranni di consultazione, dando un fremito d’eccitazione ai volumi per la presenza dei giovani ed a questi l’occasione di una mattina lontano dai banchi di scuola.
La signora Adriana, con lo sguardo perso al di là delle lunette di lettura, cominciava con il presentare il termine biblioteca partendo dall’etimo greco composto da: βιβλίον (biblíon, “opera”) e θήκη (théke, “scrigno”). Molti di quei ragazzi lo sapevano già, perché anticipato, onde non fossero completamente asciutti sull’argomento, dai loro professori, come preludio alla visita; la bibliotecaria poi, quasi seguendo un accreditato copione, li conduceva davanti alla porta della sala grande e con gesto teatrale ne spalancava di colpo i battenti. L’apparizione di un luogo, le cui pareti erano interamente ricoperte da librerie che arrivavano al soffitto, lasciava stupiti i giovani studenti azzerandone di botto le sciocche ilarità di gruppo. Sbarravano gli occhi ma soprattutto le narici davanti al bouquet legnoso e leggermente stantio della carta antica.
La signora Adriana si trasformava così in cantastorie fantastico, conducendo per mano i ragazzi indietro nel tempo; parlò loro della necessità, avvertita da sempre dall’uomo, di tramandare agli altri gli eventi della propria vita , di ciò che vedeva intorno, ma anche di esprimere e rendere duraturo ciò che provava. Dai graffiti all’iscrizione su pietra, dall’ argilla al papiro, il soffio dei millenni li portò nella più antica biblioteca del mondo antico, quella di Alessandria d’Egitto, e poi ancora nelle officine dove si provava la stampa sulla cui invenzione innumerevoli furono le rivendicazioni di paternità.
Qualcuno degli studenti ricordava vagamente l’immagine, stampata sui libri di scuola, delle tavolette d’argilla e delle piante di papiro o delle pergamene, ma era un ricordo confuso e non come quello che spiegava così bene questa anziana signora che, trasfigurata dalle parole, sembrava adesso quasi bella. Alla fine della visita, riemersi nella luce del giorno naturale, nel traffico delle strade, sulla sporcizia dei marciapiedi, credettero di essere realmente stati dentro alla più grande biblioteca del mondo antico e di avere visto di persona quelle migliaia di rotoli, alcuni lunghi fino a dieci metri, allineati tra i marmi. Quella visita in biblioteca per alcuni avrebbe in seguito fatto da lievito per trasformare quella curiosità in durevole salute intellettuale. Ma, se i ragazzi avevano ascoltato con interesse, c’era anche un altro pubblico silenzioso e non certo meno attento. I tomi, dai loro scaffali, ogni volta rivivevano le vicende dei loro avi, sedotti dalla storia di quei rotoli, che faceva dei sentimenti umani la memoria collettiva ed imperitura. Nel racconto dell’evoluzione che li aveva generati, nei simboli ortografici che la fabbricazione della carta e l’invenzione della stampa avevano concesso, riscoprivano il brivido, che li aveva resi protagonisti di una delle più grandi rivoluzioni della storia dell’uomo. Per loro però, quando la grande porta della sala si richiudeva alla spalle della scolaresca, sentimenti contrastanti animavano l’esito della giornata; l’accumulo delle emozioni generate dal racconto, provocava eccitazione, ansia e tristezza ma anche inadeguatezza, frustrazione e rabbia; era come se percepissero, dal confronto con il passato, al contempo orgoglio misto ad una sottile svalutazione di se stessi. L’ambiguità di un equilibrio forse offeso, dava inizio ad un crescente e, dapprima vivace, scambio di opinioni che finiva però con il far riaffiorare sopiti conflitti tra i generi letterari sull’importanza predominante degli uni sugli altri. Erano sempre i libri di epica ad attaccare turilla.
“Noi, che siamo letteratura con la elle maiuscola, non possiamo permettere che ci stiano vicino certi volumi. Noi cantiamo le solennità di eroi che hanno marcato l’entusiasmo dell’appartenenza ad un popolo, Noi, che annoveriamo autori come Omero, non vogliamo accanto favole e fiabe! Ecco l’ho detto!” disse tutto di un fiato l’Orlando furioso di Ariosto.
“Sono d’accordo – sbottò la Gerusalemme liberata del Tasso -. Ti immagini? Io ho accanto a me “La volpe e l’uva. Ma come mi devo sentire?”. I volumi del ciclo carolingio applaudirono scomposti.
“Ah maledetto! l’avevo sempre sospettato questo livore nei nostri confronti”, gridò una vecchia edizione delle favole di Esopo a cui si unirono quelle di Fedro ed alcune novelle del Decamerone.
Dallo scaffale più in basso, Trilussa gridò: “E’ ‘na mania che nun se po’ guarì , d’artronde che ne po’ capì uno che fa girà er pupo Orlando sur carretto siciliano”. “Basta basta!” disse una copia dei Malavoglia: “E noi, che siamo stati la voce reale di un popolo, la denuncia delle plebi meridionali e mai letture d’intrattenimento, che dovremmo dire che ci troviamo accanto alle decadenti morbosità dannunziane. State zitti e sopportate!”. “Questi italiani! sono sempre gli stessi!” sussurrò nel pallido disgusto la Madame Bovary di Flobert.
Un improvviso sussulto scosse tutto, come se sotto il pavimento passasse un bolide enorme. Il salone cominciò a dondolare muovendo tutte le librerie come fuscelli di legno; la libreria grande, quella dove stavano i conflagranti, cadde perpendicolarmente al pavimento ingombrandolo di calcinacci che trascinava con sé. Nel buio assoluto, che amplificava il terrore, ed in un tempo incalcolabile per brevità, anche le altre librerie si sfracellarono proiettando libri ovunque e mischiandoli tra loro. Il terremoto, infatti, aveva spalancato la porta della sala grande consentendo una paradossale globalizzazione del sapere. Alcuni libri finirono persino nella saletta moderna e l’Historia naturalis di Plinio si ritrovò malconcia tra la biografia di un calciatore di successo e le avventure erotiche di una giovane influencer; squinternati e sbrindellati, molti giacevano sofferenti tra i fumi dei calcinacci. Dopo il finimondo, il silenzio; dopo il silenzio, l’acuta nostalgia della normalità del quotidiano. Proprio quella normalità che spesso causa la noia, consentendole di prendere posto nelle relazioni per inquinarle con l’inutile scontentezza.
Nell’algida atmosfera del post terremoto, da un angolo del vestibolo, sotto la teca in vetro, frantumata in mille pezzi, si udì una voce conciliante. Dal volume dei Promessi sposi, scompaginato e strappato in più parti, si levò l’invito alla pace: “Il primo svegliarsi, dopo una sciagura e un impiccio, è un momento molto amaro” che sgarbatamente costringe a fare i conti con la dura realtà”.
“Miei cari, come vedete la sofferenza colpisce ogni cosa all’improvviso senza che si sia fatto nulla per meritarla; occorre che ad essa si opponga una viva reazione, ma sempre tenendo conto del ruolo che ogni cosa ha nella propria esistenza. Tutti siamo importanti: ognuno di noi è strumento d’arte, dimensione creativa e gioca a dar voce alla cultura storica di tutta la produzione letteraria, che ha pari dignità nel panorama variegato dell’attività umana”. Queste parole, nell’emergenza straordinaria dell’evento, fecero comprendere ai generi letterari la legittimità della loro autonomia, il valore che ognuno di loro rappresentava nel complesso modo di descrivere l’universalità della natura. Placati, si disposero all’attesa.
Nel giro di chiave, che sollecito giunse dalle mani della signora Adriana, l’intervento di una catena umana di volontari si adoperò, senza badare a spreco di mezzi e fatica. Mescolati e messi sui ripiani senza alcun criterio, i volumi cominciarono ad essere chiamati:
“Alfieri Vittorio”. “Presente”. “Posto 850 A- 4”.
“Newton Isacco”. “Presente”. “Posto 520 B-7”.
“Eraclito” di Efeso”. “εδώ είμαι”. “Dillo in italiano! Uff… quante arie si danno questi filosofi!”. “Qui sono!”. “Posto 180 E- 21”.
Piano piano ognuno fu ricollocato nelle librerie, rimesse a posto. nella loro posizione originaria. La pace, ristabilita al momento, riconferì a quel luogo fantastico il compito di regalare le impronte del passato e le giuste risposte alle curiosità intellettuali di chiunque volesse chiederle, ma la Signora Adriana li conosceva bene: la pace era solo una tregua perché quei tomi trattavano parole e gli equivoci erano sempre in agguato in soggetti così permalosi.
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