Recensioni Lo spettacolo, messo in scena da Giovanni Arezzo con Alice Sgroi, ha inaugurato al Teatro del Canovaccio di Catania la rassegna "Olodrammi" organizzata da Mezzaria Teatro
Un monologo a più voci, quelle stesse voci che rimbombano, accavallandosi, nella testa di Sarah. Un susseguirsi ed inseguirsi di pensieri, parole, frasi, emozioni. Una lunga corsa verso una libertà a lungo desiderata, ma che ora si manifesta deludente, perché “non è vero che da morti non si soffre, è solo diverso”.
Lo spettacolo “Io, Sarah”, che lo scorso week end (11-13 ottobre) ha inaugurato la rassegna Olodrammi organizzata da Mezzaria Teatro al Canovaccio di Catania, è una cavalcata nei meandri della psiche umana, nei cunicoli della depressione che può sfociare in malattia mentale.
Lo spettacolo, tratto (e nato in concomitanza) all’omonimo libro di Francesca Auteri su idea dell’editor (e scrittrice) iblea Erica Donzella, vede in scena un’energica e adrenalinica Alice Sgroi, in una delle sue migliori performance, sapientemente diretta dal regista ragusano Giovanni Arezzo, con il quale ha condiviso la riduzione e l’adattamento teatrale.
Al centro della storia c’è lei, Sarah, Sarah Kane, la drammaturga britannica morta suicida nel 1999 a soli 28 anni, dopo aver dato alla luce 5 testi teatrali da cui la drammaturgia attinge a piene mani.
Un’autrice ancora poco conosciuta e rappresentata – soprattutto in Italia – che ha ricevuto fama e gloria (come spesso accade) solo dopo la morte, entrando a pieno titolo tra le drammaturghe del filone “In yer face theatre”.
Ma nello spettacolo “Io, Sarah” Sarah Kane c’è e non c’è. C’è la sua storia personale, le sue parole, la ricerca ossessiva e spasmodica di un amore, un qualsiasi amore, troppe volte negato. C’è la sofferenza e la disperazione di una donna fragile e sola: sola con i suoi disturbi, le sue paranoie e i suoi eccessi. Ma lei è già morta. Una morte liberatoria che abbraccia consapevolmente suicidandosi con i lacci delle scarpe nella clinica in cui era ricoverata.
Ed è da qui, da dopo il decesso, che prende le mosse la messa in scena di Arezzo. In un luogo-non luogo spoglio, scuro e brutto, che altro non è che la rappresentazione di uno stato dell’anima, dalla mente incandescente di Sarah, una donna che anche dopo la morte non trova pace a partire dal suo corpo che è tutto un formicolìo, sciorirano pensieri alla velocità dei frecciarossa. Il pubblico non può fare a meno di seguire questo delirio, attonito, sconvolto dalle parole (molte della quali tratte dalle opere Febbre e Psicosi delle 4.48, lette anche da due voci fuori campo) e dai movimenti frenetici e sfiancanti di Alice Sgroi (una vera atleta sul palco) che riempie tutta la scena.
Una scena “arredata” solo da alcuni fogli di una lettera, disposti in modo circolare dalla stessa Sarah: l’illusione di una gabbia “dorata” che lei stessa si è creata all’interno della solitudine più nera. Quello che un tempo doveva essere un appiglio, oggi è ancora una volta motivo di dolore, quel “dolore rassicurante che ti fa sentire viva”. Sarah è una donna spezzata in due, come la crepa con cui inizia a dialogare, per solitudine. E’ una donna che soffre di un amore negato che, per questo, diventa eccessivo, ossessionante e ossessivo.
E Alice Sgroi, che lo stesso regista ha definito nelle note di regia “Per sensibile intelligenza teatrale e meravigliosa violenza emotiva, è la mia Sarah ideale”, si dimostra all’altezza del ruolo senza banalizzarlo, senza cadere in scontati atteggiamenti tipici di un certo tipo di depressione, ma anzi esaltando quella che potrebbe essere la fase “up” di un disturbo bipolare.
E se in questo spettacolo non c’è Sarah Kane “l’artista” (nel senso più stretto del termine), ci sono altre mille e mille Sarah, tutte quelle che per amore hanno intossicato, fino all’avvelenamento, la loro stessa vita. Sarah non è solo Sarah Kane, ma un modello universale, frutto di una società – la nostra – malata di solitudine.
Ma quante Sarah ci sono in questo spettacolo? Sarah Kane la suicida, Sarah che soffre di solitudine, per amore e si dispera, e poi c’è l’altra, che è si una donna che l’artista ha amato senza essere ricambiata, ma è anche l’alter ego della stessa Sarah, quella parte di lei incapace di amarsi.
Sul finale, scandito dalle note di Wish you were here (Vorrei tu fossi qui) dei Pink Floyd, quel “ti amo” arriverà. Troppo tardi? Forse no.
Lunghi e meritatissimi gli applausi da parte del pubblico, soprattutto per Alice Sgroi visibilmente stanca e commossa.
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