Buio in sala Vincitore a Venezia, in "Joker" di Todd Philipps tutto è esasperato. La plasticità del protagonista Joaquin Phoenix, incarna l’alienazione di una mente dove tutto è compromesso
Presentato in Concorso alla 76esima edizione del Festival di Venezia, vincitore del Leone d’Oro e del Toronto Film Festival, Joker di Todd Phillips, film di cui il regista è co-sceneggiatore insieme a Scott Silver, è stato oggetto di critiche molto contrastanti circa la sua pericolosità sociale. Il film, infatti, pretende e ci riesce bene, di essere più che una pellicola di mero intrattenimento un messaggio provocatorio prefigurando come malesseri sociali possano essere potenziali a una deriva violenta ed insensata. La vicenda tratta di Arthur Fleck (Joaquin Phoenix), un giovane uomo turbato mentalmente che conduce una vita squallida insieme all’anziana madre malata Penny Fleck (Frances Conroy,) di cui egli si prende amorevole cura. Attraverso il racconto della sua quotidianità fatta di un lavoro da clown da strada, di continue sopraffazioni ed umiliazioni, lo scorcio di un’esistenza emarginata e gli indizi di un enorme vuoto affettivo in cui solo il sogno di diventare un comico di successo può giustificarne la sopportazione.
Joker è un film che fa male in ogni sua parte: nella città che è Gotham City ma potrebbe essere qualunque altra metropoli in cui le periferie traboccano di spazzatura e i topi sono grandi come conigli; le ipergraffitate metropolitane contengono nelle loro viscere le turbolenze multirazziali e finti buoni si mischiano ai veri cattivi. In questi scenari modernamente apocalittici, in cui l’indifferenza genera invisibilità, a pagare lo scotto maggiore sono i più deboli quelli in cui gli esiti degli abbandoni e dei traumi infantili fruttificano in malessere e persino in patologie. Relegati ai margini di una accettabilità sociale subiscono il buonismo politico che fa delle loro condizioni esistenziali, inutili politiche assistenziali. Il potere è lontano dalle problematiche degli ultimi e sta nella politica e in mano a certa televisione che irride e, facendo finta di tendere una mano, gira a proprio profitto l’altrui ridicolo. In una ambientazione curata allo stremo, negli interni indigenti del casermone di periferia dove l’ascensore si ferma di continuo, le porte sono scrostate, una televisione sempre acceso diventa l’unico contatto con il mondo esterno e un frigo svuotato, il luogo in cui nascondersi.
Tutto nel film è esasperato e conduce nell’abisso della follia: la bella colonna sonora della violoncellista e compositrice islandese Hildur Guðnadóttir, che tiene alto il disagio dello spettatore, la risata incontrollata di Arthur, sirena d’allarme della malattia mentale, il trucco sbavato di un pagliaccio sorridente dagli occhi tristi. Joaquin Phoenix, vero perno di tutto il film, diventa Arthur che poi diventa Joker in una lenta gestazione fatta di sopraffazione ed umiliazioni così come qualcuno di noi potrebbe fare, basta che ce ne fossero le condizioni. La plasticità artistica del protagonista è l’alienazione di una mente dove ormai tutto è compromesso, dove non c’è ritorno indietro.
L’eroe negativo diventa empatico e diventa l’eletto del popolo degli oppressi. In rivolta, dietro la maschera stereotipata di pagliaccio si coglie l’occasione per esplodere ed infrangere l’equilibrio sociale sconquassando ogni cosa e dando la stura agli odi repressi e sedimentati negli anni. La scala nel Bronx che è stata la scena in cui Joker balla è improvvisamente diventata meta di visitatori e d incredibile luogo di culto; forse questo è la conferma di come il film in fondo sia lo specchio pericoloso di una società a cui basta poco a far diventare profili clinici… in profili storici lasciando che dinamiche di massa in preda a pulsioni d’ogni tipo prendano pericolo sopravvento essendo prive di qualsiasi razionale freno inibitore.
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