Sicilians La pediatra catanese Lisa Di Pasquale è andata come volontaria - insieme con altri sette operatori tra anestesisti, infermieri, pediatri e uno studente di medicina - in Guinea Bissau per una missione di poco meno di un mese organizzata dalla siciliana Amici delle missioni: «Sono persone che vivono in villaggi di una terra meravigliosa dove si può morire ancora di malaria, i bambini soprattutto, o di gastroenterite. Lì ho toccato con mano l’essenzialità senza sovrastrutture»
Venticinque giorni in Guinea Bissau, Africa tropicale, come volontario medico, possono far cambiare il punto di vista sulla vita. Da Catania sono partiti in otto, fra anestesisti, infermieri, pediatri e uno studente di medicina. Lisa Di Pasquale è una pediatra di libera scelta: «Avevamo i trolley pieni di medicinali, in parte comprati, in parte donati da farmacie amiche. Siamo andati nelle missioni, dove l’organizzazione (Amici delle Missioni – Sicilia) aveva pianificato la nostra attività di soccorso. Qui si può morire ancora di malaria, i bambini soprattutto, o di gastroenterite; non ci sono ambulatori, si visita per terra, sulle pietre dei sedili le madri mettono i foulard e sopra noi visitiamo i loro bambini. Sono persone che vivono in villaggi di una terra meravigliosa, con bellezze naturali magnifiche, e che non posseggono niente, se non l’indispensabile per sopravvivere. Eppure quello che ho ricevuto è superiore a quello che ho dato loro».
Cioè?
«Gratitudine nei confronti della vita, e ho cambiato il mio modo di percepirla. Il salto è enorme, tra questo e quel mondo, questa frenetica voracità di tempo e cose, e quella semplicità essenziale fatta di accoglienza, sorrisi, riconoscenza e dignità. Abbiamo trasportato sul cassone di un fuoristrada una bambina in stato avanzato di malaria, era febbricitante, stava male ed era spaventata, ma non ha elevato un lamento».
Ci parli del tipo di vita che ha incontrato.
«Qui gli uomini amici si tengono per mano, come da noi possono farlo le donne. Non hanno preconcetti nei confronti della diversità di genere, di razza e di religione: per loro esiste la persona. Non hanno acqua corrente, ma pozzi sparsi, che raggiungono percorrendo a piedi anche 10 chilometri, per poi ritornare al villaggio con un solo secchio, che serve per cucinare e lavarsi. Ma c’è armonia tra loro, e tra loro e l’ambiente che li circonda. Equilibrio, ecco, che non toglie loro il desiderio di studiare, soprattutto nelle donne. Ospedali e scuole sono le priorità per le missioni, che raccolgono fondi anche da associazioni come la nostra. C’è un tasso di mortalità infantile esagerato e un analfabetismo quasi totale. I problemi per quella gente sono basilari, di morte possibile quotidiana. Quando rapporto tutto questo alla vita occidentale nostra, della multa arrivata o del bagno che perde o del guasto alla macchina, mi rendo conto che i nostri non sono problemi. E sono grata alla vita, se invece posso aprire il rubinetto e lavarmi quando voglio con l’acqua calda che scorre».
Lei ha portato suo figlio con sé.
«Non esattamente. E’ studente di medicina al sesto anno, ha 25 anni, e ha voluto lui fortemente fare quest’esperienza umana e medica. E’ rimasto molto colpito dalla facile interazione con i ragazzini, con i bambini che amano essere presi in braccio e giocare».
La Guinea Bissau è un piccolo Paese dell’Africa subsahariana, compreso tra l’equatore e il Tropico del Cancro, affacciato sull’Oceano Atlantico. Di colonizzazione portoghese, da molti anni ormai è riconosciuto come indipendente, in una condizione di finta repubblica, dove regna la povertà assoluta, con emergenze sanitarie che si chiamano Aids, colera, tifo e, appunto, malaria. Il Covid, di contro, è poco sviluppato per ragioni di ordine fisico: non ci sono assembramenti, perché si vive all’aperto tutto l’anno, e le temperature sono molto elevate.
Dottoressa Di Pasquale, lei è medico e già qui esercita la sua professione, curando e salvando centinaia di bambini suoi assistiti. Perché è voluta andare in Africa?
«Sì, ma avvertivo un bisogno di fondo che qui non è soddisfatto. Lì ho toccato con mano l’essenzialità senza sovrastrutture, il fare come dovere di essere umano e la salvezza di una vita senza proclami. Ci siamo pagati il biglietto aereo, eravamo volontari, uomini e donne che col nostro sapere abbiamo aiutato e salvato altri uomini e donne e bambini. E’ forse questo il richiamo: dare amore e riceverne il doppio. Essere collegati a un’energia più grande di noi. Ed è per questo che ritornerò in Africa».
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