Blog Insuperata resta “Questa bella d’erbe famiglia e d’animali” di Foscolo per descrivere il mondo vegetale e animale. Infami assassini sono coloro che ogni anno, col favore della canicola estiva, incendiano i boschi, uccidono alberi e animali. Ci voleva Greta a ricordarci il male, che l'uomo, ha inflitto al mondo naturale e animale? Facile sentirsi “umanitari” limitando al Bipede Dominante le attitudini alla pietà e al soccorso
“Umanità”: bella parola, da riempirsene la bocca conversando in pizzeria o concionando in pubblico. Già, facile sentirsi “umanitari” limitando al Bipede Dominante le nostre attitudini (vere o millantate) alla pietà e al soccorso. Facile ignorare la vita altrettanto intensa e bisognosa di sollecitudine che vibra nel mondo vegetale e animale, per sottometterla, per devastarla o divorarla.
E dire che or sono due secoli il nostro Foscolo alla spietata fatalità della morte aveva contrapposto non solo i fasti degli umani da consegnare alla memoria ma anche la trepidante vitalità di “questa bella d’erbe famiglia e d’animali” (definizione bellissima, insuperata); e dire che un fisico ottocentesco, Gustav Fechner, in Nanna o l’anima delle piante, aveva già contestato le nostre gerarchie in cui svetta l’arrogante homo sapiens: “Perché non ci dovrebbero essere, oltre le anime che camminano, gridano, mangiano, anche anime che silenziosamente fioriscono e spandono odori?”.
Perché oggi torno a quegli appelli inascoltati? Perché la natura brucia, perché infami assassini (sì, assassini), come ogni anno col favore della canicola estiva, incendiano i boschi, uccidono alberi e animali. E non si tratta di misfatti equiparabili ai cosiddetti crimini contro l’umanità? Desertificare l’Amazzonia non è grave quanto – o quasi – bombardare Sarajevo o distruggere le torri gemelle?
Dei roghi di questi giorni scrive oggi, sul nostro quotidiano, Elvira Seminara. Parla degli alberi martoriati e trucidati; degli alberi, “testimoni antichi e indulgenti della nostra storia, e della nostra incapacità di stare al mondo, loro, il nostro ossigeno e riscatto, di meraviglia e di salute, stroncati dai più vili tra gli uomini”. Già, stroncati: Elvira fa osservare che parliamo di vite “stroncate” anche per gli umani, “perché private del tronco, come i fratelli alberi”.
Degli alberi scrissi anch’io, in un bel libro collettivo ideato e curato da Grazia Calanna e dedicato a quelle maestose e rigogliose creature. Riproduco qui di seguito, in corsivo, quel breve scritto.
Lo confesso: ho sempre detestato l’albero a cui tendevi la pargoletta mano, così come la cavallina storna che portava colui che non ritorna, con tutto il rispetto per i lutti dei rispettivi autori, che forse meglio avrebbero fatto a non banalizzare il loro sacrosanto dolore affidandolo a quei versi enfatici, destinati ad angariare lungo più d’un secolo incolpevoli scolaresche.
Questo non vuol dire che io non ami gli alberi o i cavalli, tutt’altro; solo che non amo il loro illecito uso da sostegno o da traino dei nostri piagnistei, di una retorica più impudente dell’ascia dei boscaioli o della frusta dei carrettieri. E poi mi torna sempre in mente quanto scriveva Brecht: «Quali tempi son questi, quando discorrere d’alberi è quasi un delitto, perché su troppe stragi comporta silenzio». Detto altrimenti: sarebbe bello, sarebbe preferibile per un poeta incantarsi al cospetto del miracoloso splendore della natura, ma i tempi terribili che viviamo, gli eccidi e le ingiustizie del presente gli impongono di scrivere d’altro, di trasmettere quel grido di dolore, di denunziare l’iniquità e la barbarie.
E tuttavia Brecht ignorava, e con lui i letterati e gli intellettuali “impegnati” del tempo suo, che anche dagli alberi proviene un grido di dolore, altrettanto lacerante e inconsolato. Ci voleva proprio la piccola, simpatica Greta a ricordarci tutto il male, le atroci manipolazioni, le devastazioni che l’uomo, quest’animale all’origine fragile e insignificante, poi feroce dominatore e aguzzino, ha inflitto al mondo naturale e animale? Ci voleva l’attuale vendetta del pangolino e del pipistrello? E la tragedia dell’Amazzonia?
Gli alberi soffrono, gli alberi parlano. E non solo tra di loro, come ormai la scienza accetta. E non solo a parlare è il contorto arbusto in cui si cela l’anima afflitta del suicida Pier delle Vigne, che al gesto irresponsabile di Dante replica con autentico strazio: «Perché mi schiante?». Non solo: giorni fa ho commesso un peccato mortale, ho spento la sigaretta sul ramo di un alberello del mio giardino. Ebbene, ci crediate o no, da quella pianta si è levato un flebile gemito, che si propagava in tutte le sue fibre, fin nei più esili ramoscelli. E ci crediate o no, lo stesso gemito l’ho sentito sprigionarsi dalle piante vicine.
Un gemito. Fu san Paolo a scrivere che tutta la natura «geme nell’attesa»: della salvezza, della stessa resurrezione che fu promessa ai nostri corpi mortali e gravati dal peccato. E perché mai dovrei salvarmi io, e aspirare a un’altra vita redenta e beata, e non il mio gatto Baku che con grande carattere e fiera dignità sa quando ricorrere alle mie carezze e quando, invece, respingermi perché offeso o sovrappensiero? Perché io e non l’ulivo del mio giardino che ha addirittura deciso di sposarsi con un mandorlo accogliendolo in grembo?
C’è una bella novella di Pirandello il cui protagonista si innamora di un esile, insignificante filo d’erba, fino a farsi uccidere per difendere quella minima esistenza vegetale. E gli farà eco Franco Battiato: «mi vedevo immobile danzare con il tempo / come un filo d’erba / che si inchina alla brezza di maggio / o alle sue intemperie». Un filo d’erba. E con lui tutta la foscoliana “bella d’erbe famiglia e d’animali”, dagli alberi dell’Amazzonia alle lucciole di Pasolini, dal lupo del santo d’Assisi al cespuglio di biancospini sulla strada di Swann, tutti parte della stessa “comunione universale” a cui ci ha invitato, nella sua bella e ispirata enciclica Laudato si’, papa Francesco.
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