Blog Per Ohran Pamuk uno scrittore deve provare compassione per i suoi personaggi, e deve saperla trasmettere ai lettori, affinché la provino anche loro. Di compassione trabocca uno dei romanzi a mio avviso più belli del Novecento europeo: "Vita e destino" di Vasilij Grossman, che la profonde su una miriade di piccoli e umanissimi personaggi stretti nella morsa degli orrori nel tempo e nei dintorni della battaglia di Stalingrado
Ohran Pamuk, uno dei pochi scrittori viventi che leggo con piacere, disse al Salone del libro di Torino che uno scrittore deve provare compassione per i suoi personaggi, e deve saperla trasmettere ai lettori, affinché la provino anche loro.
Di compassione trabocca uno dei romanzi a mio avviso più belli del Novecento europeo: Vita e destino di Vasilij Grossman, che la profonde su una miriade di piccoli e umanissimi personaggi stretti nella morsa degli orrori dell’invasione nazista e poi della repressione stalinista, nel tempo e nei dintorni della furiosa e decisiva battaglia di Stalingrado del 1942-’43.
Un libro, Vita e destino, che pare scritto da un demiurgo benevolo, sofferente e compassionevole; e perciò unico degno, nel nostro Novecento, di essere paragonato a Guerra e pace (unico? forse, a meno di affiancargli I quaranta giorni del Mussa Dagh, di Franz Werfel, sul massacro turco degli armeni).
Da Guerra e pace a Vita e destino è la stessa nobile e profonda, inarrivabile anima russa a patire e ad esprimersi; ma a differenza di Tolstoj, che nella vasta trama degli anni dell’invasione napoleonica tesse l’ordito delle vite e dei destini di tre o quattro protagonisti, Grossman intorno alla battaglia di Stalingrado fa convergere, e rende protagonista, un’intera umanità, specchio dell’umanità intera. Cimento davvero unico, dunque, il suo; e capolavoro assoluto.
Questo romanzo lo comprai anni fa, alla svendita della bella libreria Tertulia di Antonio Romeo, che stava purtroppo per chiudere. Accanto ad Antonio, ci lavorava l’indimenticabile Ciccio Distefano, silenzioso protagonista con l’estroverso Carmelo Volpe della forsennata formazione della mia generazione divoratrice di libri; e ci lavorava pure la mia cara ex allieva Valeria Castorina, che poi mi chiese se il libro mi fosse piaciuto e se glielo consigliavo. Ebbene: a una prima lettura, forse scoraggiato dalla mole, l’avevo abbandonato dopo un centinaio di pagine; perciò, incautamente, la sconsigliai. Che dirle, quando lo rilessi con entusiasmo, per farmi perdonare quel giudizio avventato? Solo, leopardianamente: “Errai, candida Valeria; assai gran tempo, e di gran lunga errai”.
Raccontando la Russia bolscevica arroventata nel fuoco di quella interminabile e cruentissima battaglia, e piagata dalle persecuzioni staliniane, Grossman in una delle tante memorabili pagine del suo romanzo affida all’uomo, al singolo uomo comune e irrisolto, ricetto di ambasce ma anche d’innocenza, e alla sua dimessa unicità, un mandato addirittura salvifico: «Le assemblee umane hanno un unico scopo: conquistare il diritto a essere diversi, speciali, il diritto di sentire, pensare e vivere ognuno a suo modo, ognuno a suo piacimento. […] L’unica ragione vera ed eterna della lotta per la vita è l’uomo, la sua pudica unicità, il suo diritto a essere unico».
E aggiunge: «Ho visto la forza incrollabile dell’idea del bene sociale, che è nata nel mio paese. […] Era un’idea bella e grande, e ha ucciso senza pietà, ha rovinato le vite di molti, ha separato le mogli dai mariti, i figli dai padri. […] E dunque oltre al bene grande e minaccioso esiste la bontà di tutti i giorni. […] È la bontà dell’uomo per l’altro uomo, una bontà senza testimoni, piccola, senza grandi teorie. La bontà illogica, potremmo chiamarla. […] È una bontà senza voce, senza senso. Istintiva, cieca. Essa è forte finché è muta, inconsapevole […]. La bontà è debole, fragile: questo è il segreto della sua immortalità. Essa è invincibile. Più è sciocca, più è illogica e indifesa, tanto più è imponente. Il male non può nulla contro la bontà! Profeti, apostoli, riformatori, leader, capi delle nazioni nulla possono contro di essa. La bontà, amore cieco e muto, è il senso dell’uomo».
L’uomo: penso all’uomo solo nel notturno spettrale d’una piazza San Pietro deserta, l’uomo Josè Maria Bergoglio che faticosamente l’attraversava per recarsi ai piedi del Cristo crocifisso, in una memorabile ripresa televisiva. L’uomo, in una sequenza che nessun cineasta potrà eguagliare, nuovamente solo nel deserto al cospetto dell’Altissimo, senza mediazioni di chierici assolventi e di gerarchie pontificanti.
E la bontà: quel valore desueto, ricoperto di polvere, oggi soltanto vilipeso (“buonismo”!), che rimpiango quando mi ostino a proporre nei social temi di sereno e utile dibattito e invece mi accorgo di dar la stura solo a virulente colluttazioni, nel segno del disprezzo e dell’oltraggio. Altro che compassione, ovvero passioni condivise se pur diversamente intonate e orientate; altro che indulgenza e anzi sforzo di capirsi, di specchiarsi nelle altrui ragioni! Solo astio e dileggio, a celare l’abissale insicurezza che cova e geme in ciascuno di noi in questi tempi grevi.
Tempi di catastrofe, ambientale e umana, infinitamente più vasta e radicale d’una fortuita pandemia. Grossman fu tra i primi soldati russi a varcare i cancelli dei campi di sterminio abbandonati dai nazisti in fuga: forse, contemplando sgomento quell’infinito orrore, capì.
Capì che era l’inizio della fine. E provò una smisurata compassione per tutto il genere umano, avviato a un destino oscuro e autodistruttivo: una desolata compassione, come quella «dilagante pietà» avvertita «per quelli che restavano» da Leonardo Sciascia, nel suo testamentario Il cavaliere e la morte. E avrebbero voluto, Sciascia e il suo Vice, protagonista del romanzo, «gridarlo al mondo che andava assumendo questa sostanza: di essere indegno della vita».
Ma sapevano che ogni grido svanisce nel deserto.
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