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“Mari matri”, per Peppe Calabrese la Sicilia è un “mare madre” che accoglie e nutre

Musica Pubblichiamo la prefazione all'album del musicista e cantante favarese, da quasi mezzo secolo conosciuto per essere uno dei perni della Compagnia popolare favarese, tra i gruppi più conosciuti del folk revival siciliano. E “Mari matri” è il suo primo album da solista che arriva a 66 anni “suonati” (in tutti i sensi); perché, si sa, la musica, soprattutto se la fai, mantiene giovani

Il mare accoglie e nutre, quindi è madre per Peppe Calabrese, musicista e cantante, da quasi mezzo secolo conosciuto per essere uno dei perni della Compagnia popolare favarese, tra i gruppi più conosciuti del folk revival siciliano. E “Mari matri” è il suo primo album da solista che arriva a 66 anni “suonati” (in tutti i sensi); perché, si sa, la musica, soprattutto se la fai, mantiene giovani.

Peppe Calabrese

Il mare unisce i paesi che separa, scriveva nel XVIII secolo il poeta inglese Alexander Pope, ed il Mare Mediterraneo cui si riferisce Calabrese non è più “Nostrum”, strumento di potere, ma “Suum”, loro, di coloro che sull’Isola vengono da lontano: “E vennu e vennu e vennu di luntanu / picca è la forza / assai è lu curaggiu” canta Calabrese nella title-track che apre l’album, una ballata cullata dalla quieta vitalità del clarinetto e dalla dolcezza della fisarmonica. Il mare-madre tutti bagna, culla i bambini, il suo blu è l’unico colore ufficiale di tutti i vessilli in navigazione, ed è beneaugurante: “Sali di lu mari vinci la mala sorti”.

“Mari matri” è un album cantautorale – Calabrese è autore di testi e musiche – che ha nel canto siciliano il vero legame con la “famiglia” musicale d’origine. Non che il folk non ci sia in questo lavoro che vede l’elegante regia musicale di Graziano Mossuto, polistrumentista (qui suona fisarmonica, piano, friscalettu, clarinetto e percussioni), esperto di colonne sonore, con la passione nel sangue per le radici di tutta la musica. Nell’album, infatti, si ascoltano il laùd e la vihuela suonati dal chitarrista Osvaldo Rizzo e il clima si fa panmediterraneo. Ad essi si affiancano il violinista Salvatore Cusumano, il violoncellista Mauro Cottone, e il clarinettista e sassofonista Gaetano Agrò. Grazie a questo ensemble la Sicilia è isola musicale in movimento.

E non che la difesa degli umili non ci sia nel ricco canzoniere della Compagnia popolare favarese ma il folk di “Mari matri”, nel suo non essere filologico (caratteristica che non è propria neanche della Compagnia favarese a metà strada tra i cantastorie e gli chansonnier mitteleuropei), è il canto di una sensibilità artistica, quella di Calabrese, aperta nelle sonorità e autoctona nei testi, che è quasi “partigiana” nel senso che “parteggia” sempre per i più deboli: “Ci su li ricchi e ci sunnu li schiavi / ci sunnu l’omini ruffiani / tanti picciotti ca nun hannu chiffari / pronti a luttari cu li pedi e li mani” è il leitmotiv di “Picchì”

La Compagnia popolare favarese

In “Mari matri” si alternano echi di cultura popolare isolana – “Santu Vitu” ha la briosità di uno swing “Made in Sicily” – con aperture world music. 

Sfocia nel klezmer “Francu tirannu”, canzone politica cui manca solo il cartellone del cantastorie. La canzone condanna la brutale operazione ideologico-militare che vide il duce fascista Benito Mussolini inviare in Spagna 80 mila “volontari” per combattere al fianco del dittatore iberico Francisco Franco durante la guerra civile dal 1936 al 1939.

Il canto politico di Calabrese diventa civile con “Caliddu Marruni”, omaggio alla memoria di Calogero Marrone, originario di Favara e capo dell’ufficio anagrafe di Varese, il quale per la sua attività di protezione di ebrei e antifascisti durante la Repubblica di Salò finì tradito e deportato in un campo di concentramento, dove morì poco prima della fine della guerra. Pianoforte, violino e fisarmonica autenticano il pathos corroborato da una voce ancora piena di dolore ma anche di affetto e devozione, pura piètas laica.

Calogero Marrone

La Sicilia delle tradizioni non può non far capolino in un album che è sì contemporaneo ma nel solco del lavoro svolto con la Compagnia di canto popolare favarese da sempre trait d’union tra la “fede” per la memoria della Sicilia popolare e un approccio musicale che bandisce ogni nostalgia del passato. Ecco che “Nipù” è una filastrocca, un gioco che canta le emozioni primigenie infantili.

E ci sono ancora i bambini in “Carusi di surfaru”, questa volta quelli più grandi ma sfortunati che hanno donato anche la vita nelle miniere di zolfo del centro Sicilia, omaggio di cuore e carne verso quelle ferite storiche di una Sicilia che cerca ancora redenzione, nel senso di liberazione dalle ingiustizie. E se Marley fece della sua “Redemption song” una preghiera corale che invitava a “emanciparsi dalla schiavitù mentale”, Calabrese qui canta una sorta di drammatica orazione funebre che vuol rendere giustizia postuma al sacrificio di tanti innocenti schiacciati da una gestione medievale del lavoro.

I “carusi” che lavoravano nella miniere di zolfo del centro Sicilia

Il folk puro torna protagonista con “E la matina”, rappresentazione iconica di un mondo rurale vittima anch’esso degli abusi di chi la terra non l’ha concepita come espressione di una vita semplice ma dignitosa ma solo come terreno di fortune economiche ai danni altrui.

L’album si chiude teatralmente con “A proprietà”, paradossale e scherzosa celebrazione dell’acquisto di una tomba cimiteriale come unico motivo di riscatto personale degli umili. E dopo 35 minuti “Mari matri” ti chiede di ripartire dal primo brano…



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