Musica Quattro anni fa ha scelto di vivere dove Elvis divenne il dio del rock, ma il suo essere italiano e siciliano non lo mette mai in discussione. Il rocker etneo ha scelto di eleggere la storica casa di famiglia Trecastagni come studio di registrazione per il progetto strumentale "Take it away!" registrato con gli amici musicisti catanesi con cui suona sempre in Sicilia (il 30 nuovo live nella cittadina etnea): «Con loro c'è un rapporto umano fatto anche di pura “liscìa”. Dedico il disco a mia madre morta a giugno»
Lo avevamo lasciato due anni e mezzo fa nei panni di Eddie Redmount e lo ritroviamo oggi col suo nome Mario Monterosso. L’alter ego siculish del rocker etneo incarna il classico immigrato siciliano in America che si permette di scomodare persino Sinatra per sfondare nel mondo della musica e “Fui e sono Eddie Redmount” rappresentava la svolta “teatrale” swing del musicista, 48 anni il prossimo 10 ottobre, rocker sin dai tempi della Catania rock Anni 80 quando faceva parte della rockabilly band Rhino Rockers, e poi passato attraverso mille progetti, in Italia e negli Stati Uniti, dove vive ormai stabilmente dal 2016, avendo scelto come nuova casa Memphis, Tennessee, patria del rock’n’roll, la città che fece diventare Elvis Aaron Presley il re assoluto del nuovo genere musicale del secondo dopoguerra.
Le recenti vicende personali di Mario Monterosso lo hanno riportato a casa a Catania dove a fine giugno il musicista si è dovuto confrontare con la perdita della madre Angelina. Uno shock emotivo coinciso, caso volle, con una idea coltivata da tempo di realizzare un album registrato in casa, nella antica dimora di famiglia a Trecastagni, paese etneo di grande fascino. “The show must go on” è l’imperativo del mondo anglosassone dello spettacolo, e quando lo spirito del rock alla fine è il tuo vero nume tutelare, la musica non si può fermare troppo a lungo. Ecco che Monterosso ha chiamato a raccolta il bassista Marco Carnemolla, il percussionista Francesco Bazzano, il batterista Angelo Puglisi e il pianista Dario Finocchiaro e nel salone della settecentesca magione ha improvvisato uno studio di registrazione affidandosi al sound engineer romano Matteo Spinazzè calato in Sicilia con i suoi microfoni rigorosamente vintage perché il progetto di Monterosso era quello di realizzare un album strumentale dalle sonorità molto Sixties.
Mario, che fine ha fatto Eddie Redmount? Vi vedete, vi sentite ancora?
«Certo, lo scorso dicembre siamo stati insieme al Teatro Manzoni di Roma. Rimane sempre l’obiettivo di portare lo spettacolo a New York, cosa su cui sto lavorando. Ora con tutta sta storia del Covid portare in giro un’orchestra non è facile ma oggi posso dire che ci siamo quasi, per la fine del 2021 potremmo essere lì. E’ una cosa che emozionalmente mi prende tanto ma se ci penso troppo finisce che mi ammalo».
Come mai hai scelto di realizzare a Trecastagni questo progetto discografico e non a Memphis?
«Considera che ogni volta che torno in Sicilia con i ragazzi facciamo sempre dei concerti in giro (prossimo live domenica 30 agosto alla Terrazza Marconi di Trecastagni nda) e suoniamo brani strumentali come “Apache” degli Shadows o “Surf riders” dei Lively Ones. All’inizio l’idea era quella di registrare delle cover come “Apache”, appunto. Con i musicisti siciliani è indubbio che trovi un’intesa che va anche al di là della musica, c’è un rapporto umano fatto anche di pura “liscìa”. I musicisti americani sono invece sempre super-professionali ma un po’ robotici, non hanno la tendenza a fare gruppo fuori dal palco, per loro la performance è puro lavoro, contano di più i soldi e se alla fine la registrazione del loro contributo non finisce su disco non gli interessa più di tanto. Il musicista siciliano, seppur pagato, se sa che la sua parte alla fine viene tagliata quasi quasi si offende…».
Per gli americani anche la musica è routine, per i nostri musicisti ogni occasione va colta…
«E’ vero. Io avevo anche un altro progetto con un quintetto per un disco orchestrale come quelli della Brian Setzer Orchestra (la formazione del leader degli Stray Cats, storica rockabilly band di New York nda) ma il Covid per ora mi ha fatto saltare tutto».
Allora perché non hai atteso tempi migliori?
«Ho colto l’occasione per registrarli questi brani qui a Catania, registrazioni che possono servire sempre. Il progetto vede 9 brani miei ed una sola cover, la “Maria Elena” vecchio classico ispanico portato al successo in versione strumentale nei primi anni 60 dai Los Indios Tabajaras. Tutto era partito dal brano “Zorro” (un brano un po’ surf e un po’ Tex-Mex nda) che voleva essere un mio omaggio ai fratelli Guido e Maurizio de Angelis (grandi autori di colonne sonore che hanno fatto epoca musicando film di culto, dagli spaghetti western “Continuavano a chiamarlo trinità” a “Anche gli angeli mangiano fagioli” con Bud Spencer e Terence Hill, fino a “Zorro” di Duccio Tessari con Alain Delon o il “Sandokan” televisivo tanto per citarne alcuni nda). E proprio “Zorro” di Tessari – che vidi per la prima volta al cinema a 3 anni -, lo avevo rivisto in tv a Memphis e mi ha dato l’idea di ripescare quel mondo musicale americano, classico ma sempre di grande fascino».
Un mondo musicale chiamato Americana fatto di Tex-Mex, country delle radici, Latin, con influenze rockabilly.
«Per me è un progetto importante dopo quattro anni di vita a Memphis. In mezzo ho messo anche un paio di brani tango, come fa Tav Falco con cui suono da anni o anche Ry Cooder che amo molto. Fare musica strumentale è molto particolare, anche quando componi, è la linea melodica che cattura il tuo cervello. Per me è stata un’esperienza bellissima. Quando un chitarrista fa i brani cantati lo strumentale diventa l’assolo, il momento di estrosità che ognuno interpreta alla propria maniera, dall’improvvisazione jazz di Pat Metheny al virtuosismo chitarristico di Ry Cooder fino all’esplosione di note dei metallari. Nei brani strumentali, invece, la melodia è tutto e l’assolo perde la sua importanza. In questo momento mi affascina l’idea di unire belle melodie e ritmi diversi, utilizzando le rumbe, il bolero, la bossa nova… Il brano “Alicia” è un tributo a “Patricia”, famosissimo mambo di Perez Prado, e che ho voluto chiamare così dalla strada, Alicia Street di Memphis, dove vado a correre».
Insomma un disco molto latino…
«Non a caso per la cover di “Maria Elena” ho voluto la pianista palermitana Chiara Navarra, una musicista che si è specializzata nelle sonorità cubane. Non è facile trovare musicisti con queste sonorità. Io sono un chitarrista rock’n’roll e blues, lo stesso vale per il pianista Dario Finocchiaro e il batterista Angelo Puglisi, Marco Carnemolla e Francesco Bazzano hanno più esperienza di mondo musicale latino. Anche quando suona il blues Chiara non ha in mente il suono di Muddy Waters ma quello dei pianisti cubani, e questa è una cosa affascinantissima. La stessa “Maria Elena” io l’ho divisa in due parti, la prima più simile all’originale, quel ritmo swingato stile Los Indios Tabajaras, poi grazie a lei il brano diventa un bolero. Chiara ha suonato anche l’organo per uno dei brani cantati che poi faranno parte di un altro progetto discografico, penso un ep, un esperimento molto interessante per lei e per tutti perché non essendo il suo strumento abituale si è sentita più libera nella composizione».
Quali altri musicisti si sono aggiunti alla resident band?
«Marina La Placa, attrice che io ho coinvolto in quanto suonatrice di Theremin, che dà il suo contributo musicale al brano “Without you”, da noi soprannominato il “pezzo amaro” per melodia e arrangiamento. E poi un tocco di jazz verrà dal vibrafonista Alberto Asero nella ballata “Faraway love”».
Che mi dici degli altri brani dell’album?
«Ci sono due tango, ”Dreaming tomorrow” e “Dancing in my room”; “Midnight in Memphis” vedrà la partecipazione di Tav Falco in versione speaker, un dj della notte; “Take your train” è un pezzo folle come un treno in corsa».
E il tuo vecchio amato rock’n’roll?
«Il rock’n’roll c’è pure, nel brano “Driving to Califormia”, un brano con influenze west-coast, ispirato dal mio viaggio solitario in macchina da Memphis a San Francisco – era l’ultimo tour fatto con Tav Falco e io dovevo portare con me il backline –, tremila chilometri circa percorsi in tre giorni per più di 10 ore di guida al giorno. Tre giorni bellissimi, lungo la Route 66, attraverso la Interstate 40, passando attraverso l’Oklahoma, il New Mexico, il deserto dell’Arizona».
Un progetto discografico perfetto per una classica ballroom stile Anni 60, una sala dove ballare e bere in compagnia, virus permettendo…
«Esattamente, in America questa dimensione esiste ancora, non è stata soppiantata dai dj set. Sono ancora tanti i posti dove la band suona e la gente ha il piacere puro di ballare. Io al momento non so cosa ne farò esattamente di questi brani, sono tanti i contesti in cui li puoi fare rientrare. In America gli spazi sono tantissimi ma anche in Italia li puoi suonare dal Senigallia Summer Jamboree, festival di musica e cultura dell’America anni ’40 e ’50, al Pistoia Blues Festival o anche ad Umbria Jazz, o anche nei jazz club in giro per il Paese».
A proposito di live, ti abbiamo visto suonare a maggio con Dale Watson. In America si suona ancora?
«Dale ha la fortuna di avere un locale suo dove suona spesso in live streaming. Anch’io ho il mio appuntamento settimanale in streaming sulla pagina facebook https://www.facebook.com/marioredmount/ ogni martedì notte, ore 3 italiana e negli ultimi mesi ho suonato da casa mia a Trecastagni. Dale Watson riesce ad avere un grosso seguito anche così. In America poi non è difficile trovare chi ti finanzia un progetto perché ci crede. L’arte in America è comunque un prodotto che genera profitto, per questo trovi finanziatori che ti danno 20, 30 mila dollari e ti finanziano o tutto o in parte i tuoi progetti. Dale è uno che sposta soldi, solo di merchandising è capace di incassare 1000 dollari con le magliette sponsorizzate dalla birra nazionale texana. In America sai che stai su una linea verticale. Io so che sopra di me ci sono musicisti come Dale Watson o Tav Falco, sopra di loro ci sta Bruce Springsteen. Tra me e Dale c’è tutta una fascia orizzontale di musicisti per cui non hai bisogno di essere Springsteen per lavorare con la musica. In Italia o sei De Gregori o Carmen Consoli o soldi non ne muovi. Questo è un lato affascinante dell’America, e per chi fa musica è una cosa fantastica».
Torniamo al nascituro album. Non lo hai pensato solo per il mercato americano.
«Assolutamente no. Anche il mercato europeo è interessante, in Spagna per esempio sono molto attenti a queste cose, lì un promoter che te lo organizza uno spettacolo del genere lo trovi. Non so se farò anche il cd di questo progetto, il vinile senza dubbio perché anche in America se devono spendere 20-25 dollari per un oggetto figo preferiscono il vinile. I canali digitali hanno ormai soppiantato il cd. La Org Music, per esempio, ormai i cd degli album di Tav Falco non li stampa più».
E a te con quale etichetta ti piacerebbe realizzarlo questo album?
«La Org certamente, loro stanno a Los Angeles, quindi hanno una buona copertura nell’area californiana, anche a livello radiofonico. Per l’Italia e l’Europa l’unica etichetta che mi viene in mente è la Goodfellas di Roma, che già aveva distribuito il mio disco come Eddie Redmount, l’unica, che in questo marasma, tratta progetti indipendenti interessanti».
C’è già una bozza di titolo e quando dovrebbe essere pronto?
«Io spero che sia pronto per fine anno così da poter cominciare a girare dal vivo. Al titolo non ci ho veramente pensato. Mi piace l’espressione “Take it away!”, che gli americani usano in maniera esortativa, come il nostro, “dai su, andiamo” e riferito alla musica equivale al nostro “dai su, suoniamo o cantiamo”. Un disco che ovviamente sarà dedicato alla memoria di Angelina, mia madre, che se lo merita tutto. Io arrivai a casa il venerdì, e lei se ne è andata la domenica. Mi ha aspettato».
Ma tu avevi già l’idea di realizzare l’album qui a Trecastagni?
«Sì, mi piaceva l’idea di farlo in questa casa, dove musica se ne è fatta parecchia a cominciare da mia zia Lia che è stata cantante lirica a Santa Cecilia, una delle mie sorelle è una pianista classica. Io ho cominciato a suonare in questa casa, sciroppandomi all’infinito, a 14 anni, la cassetta di “Go Wild” degli Boppin’ Kids (noto trio rockabilly catanese che ebbe successo negli anni 80)».
Resterai a Memphis fino a quando?
«Non lo so, Memphis mi piace tanto, come attitudine…».
… ma ho come l’impressione che c’è un magnete che ti attira verso New York…
«E’ vero, è l’augurio migliore che mi possa fare e se me lo dici pure tu vuol dire che emerge, che salta fuori!».
Eddie Redmount a Brucculinu ci deve andare…
«… lo so, ma non è facile. Ripeto io adoro Memphis, è una Trecastagni grande mezza Sicilia, sia qui che lì ci sono tranquillità e grandi energie, qui per l’Etna, lì forse per il fiume Mississippi. A Memphis si sa è partito tutto con la Sun Records e la Stax Records. Arrivarci ora però da persona adulta ti impone di misurarti con una mentalità americana, fatta anche di maniacalità loro, che io non voglio sposare in pieno. Io certe mie abitudini italiane non le voglio perdere, quindi ceno alle 20 davanti al telegiornale italiano».
Alberto Sordi faceva l’americano a Roma, e tu fai l’italiano a Memphis…
«Sì, e mi sta bene questa cosa. Al me il running al parco mi piace ma mi manca la parte urbana della metropoli, il casino di New York, o anche di Londra, che mi fa diventare matto. Il problema che a New York ci vogliono tanti soldi per viverci, a Manhattan una stanza arriva a costare 3 mila dollari al mese. Io grazie al fatto di suonare con nomi come Tav Falco o Dale Watson, adesso ho un minimo di riconoscibilità anche a New York o in California ma è chiaro che a Memphis riesco suonare 4/5 volte la settimana pagato anche bene, tra i 100 e i 200 dollari, più le mance, riuscendo a guadagnare anche 3/400 dollari a concerto. La casa mi costa 600 dollari al mese, quindi alla fine stai bene. Già a Nashville la situazione è diversa, i musicisti sono pagati con le mance che pure in America sono generose, non meno di 20/30 dollari per un brano. Io sarò sempre grato a Memphis dove le opportunità per musicisti rock’n’roll come me non mancano perché è una città che ha vissuto di personaggi enormi come Elvis Presley, Jerry Lee Lewis, Otis Redding o Johnny Cash, anche se ora la città cerca una sua nuova identità».
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