Blog Posizionati dentro la piccola beuta in vetro, testimoni inerti del dispiegarsi delle pieghe del tempo, i semi avevano assistito al progresso della storia e della scienza, finché un giorno un piumino adoperato con negligenza vestì i panni del caso...
I semi avevano trascorso tutto quel tempo a sonnecchiare dentro la piccola beuta in vetro. Il gruppo faceva parte di quelle “mummie vegetali” o “semi dormienti” la cui quiescenza avrebbe potuto essere interrotta con successo, ma essi di questo non se ne dolsero mai, preferendo in ogni caso il lungo letargo accademico.
Facevano parte del materiale conservato a scopo didattico nell’orto botanico cittadino che, alla pari di un museo di storia o di scienze naturali, custodiva la straordinaria varietà di specie erbacee ed arboree autoctone, ma anche d’importazione, a dimostrazione che in quell’isola non solamente le civiltà diverse avevano avuto modo di insediarsi felicemente, ma anche la natura con le sue differenza attecchiva e si esprimeva al suo massimo rigoglio. Testimoni inerti del dispiegarsi delle pieghe del tempo, i semi avevano assistito al progresso della storia e della scienza, e alle diavolerie che accompagnavano sempre, questa e quella.
La loro dimora era da tempo immemorabile, il ripiano di una vetrina, una delle tante, nella sala centrale del Gymnasium, e proprio lì, protetti da un vetro sottile, erano diventati molto vecchi, ma non per questo, più saggi.
Un piumino adoperato con negligenza vestì i panni del caso: la piccola beuta, cadendo sbreccata, liberò il tappo di cotone idrofobo e sparse i semi ovunque. La giornata ventosa di un maggio inoltrato fece il resto ed i granelli, affidati all’aria, cavalcarono ognuno la personale fortuna.
La disgrazia più che atterrirli li elettrizzò regalando loro quell’entusiasmo che l’età non intacca e che, rifuggendo qualsiasi lezione di maturità, dispone curiosi alle novità. Sciolti dunque dalla lunga cattività avrebbero avuto modo di conoscere il mondo che si celava al di là della soglia dell’edificio in cui erano allocati ma anche di riguardare con nuovo sentimento, gli amati luoghi, stupendosi per ogni cosa che adesso appariva inusuale e diversa. La grande sala ottagonale della “Schola Regia Botanices” vista da un’altra angolazione era enorme, magnifica e lo scranno del dimostratore botanico imperava autorevole in posizione centrale. Altissima ed incombente dalla grande cupola, la dea Flora nel suo “miscuit utile dulci” riassumeva nel motto di Orazio, la perfezione della natura.
Uno dei semi più piccoli, e quindi più leggeri, finì sul bavero del kway di un turista che non faceva altro che entrare ed uscire dai piccoli edifici neoclassici costruiti all’ingresso del grande giardino urbano. L’uomo era uno straniero, probabilmente un veneto, uno di quelli che considera il Sud come una vera e propria piaga cancerosa di una nazione unita a forza. Arrivato in Sicilia per una vacanza di mare, fu svogliatamente convinto dalla giornata nuvolosa ad aggregarsi alla visita all’Orto botanico di Palermo. Aderì per non rimanere solo in albergo ma, passato il fastidio per la levataccia, quando giunse davanti alla cancellata, si disse vittima di un incantesimo.
Come raccontò più tardi, tornato a casa, l’aria salmastra che il vento di mare nebulizzava sul gruppo appena riunito, sembrò conferirgli un certo torpore, quasi un piacevole abbandono che lo rapì. Non era mai stato sensibile alle opere d’arte, né mai si era interessato alla varietà di parchi e giardini, ma quel complesso architettonico che si stagliava oltre la cancellata e che aveva come sfondo una vegetazione così lussureggiante, manipolò la sua mente accendendone l’idea di bellezza. Per nulla preparato al connubio così raffinato di arte e natura, lo straniero soggiacque disorientato dai significati complessi ed inaspettati che, sebbene sfuggissero al suo intendimento, lo toccavano nel profondo. Si maledisse per non avere studiato molto: avrebbe voluto avere la capacità di decifrare, comprendere e trattenere in sé quanto vedeva, perché comprese che quella era la felicità del sapere.
Il complesso architettonico, in stile neoclassico formato dai tre edifici, Gimnasyum, Callidarium e Tiepidarium, riassumeva compatto la solidità granitica ed un fascino che sembravano arrivare da tempi e luoghi lontani; ai lati delle scale del Gimnasyum, due sfingi di gusto esotico facevano la guardia al tempio della scienza e del sapere .
Anna, la guida incaricata di accompagnare i visitatori, era una ragazza dal fisico sottile e dai modi aggraziati; sapeva relazionarsi con il gruppo modulando bene la voce ed inframezzando alle notizie storiche ed urbanistiche, aneddoti divertenti; a tutti distribuiva piccole cartine in modo che ognuno sapesse bene dove si trovava. Riuscì in breve a compattare il gruppo, sciattamente disomogeneo e ciarliero. Le argomentazioni della bella guida, scivolavano indietro nel tempo, veloci e lisce come un tessuto di seta.
Raccontava come da sempre l’uomo avesse sentito la necessità di ricavare tra i pantani malsani dei terreni, uno spazio recintato destinato a piante da vitto ma anche a quelle medicinali, unica risorsa di una medicina che brancolava ancora nel buio delle tenebre. Pian piano, nel corso del tempo, le colture di queste piante diventarono esclusiva pertinenza degli orti monastici.
Qui, nell’ Hortus simplicium si coltivavano le piante da cui sarebbero stati estratti i principi attivi per preparare i “semplici medicamenti “ da offrire alla popolazione; sempre nell’isolamento monastico si organizzarono i primi laboratori rudimentali, dette officine, dove le piante semplici cominciarono ad essere trattate ed i loro principi miscelati a perfezionamento degli effetti.
Nel frattempo l’illuminismo sbarcava sull’isola scontrandosi con la sospettosa sicilianità della classe nobiliare; questa tentò ancora una volta di zavorrare giustizia e progresso, ma ormai l’innesco dei lumi era avvenuto, facendo perdere le sfaccettature più fosche dell’inquisizione: i roghi si spensero cedendo il posto ai giardini per il popolo; la scienza diede merito alle belle menti del tempo e l’arte aprì le porte al gusto innovativo.
Per quanto riguardava l’orto cittadino, questo parlava francese e le sue idee rivoluzionarie seppero rileggere l’antica arte greca in nuova forma d’armonia; lo fece con il beneplacito del governo spendendo i denari provenienti dai beni della finita santa inquisizione e richiamando a sé i migliori artisti locali.
Il gruppo dei visitatori all’interno del Ginnasio non ebbe bisogno di ulteriori spiegazioni perché era tutto lì, davanti ai loro occhi. In quella sala misteriosa la cui forma ottagonale rappresentava l’unione tra l’uomo e Dio, tutto fu possibile: mitologia, storia, scienza ed architettura si intrecciavano in un gusto opulento, forse ridondante, nell’esagerato tripudio di opere, simboli, manufatti. Ogni gesso, ogni medaglione, ogni storia scelta e rappresentata, riproduceva l’intrigante legame di una Sicilia con la memoria del passato. Alle statue in stucco di Teofrasto, Dioscoride, Tournefort e Linneo che dalle loro nicchie semicircolari si tendevano il lungo ed immaginario filo botanico della continuità speculativa si contrapponevano, superiori nei pennacchi, le scene mitologiche di Ovidio. Dal demone indagatore di origine aristotelica e dal «buon accoglitor delle qualità delle erbe», che volle nella Roma neroniana, poter offrire al popolo miserevole efficaci rimedi terapeutici, ad Igiea che svela ai sapienti i segreti delle erbe medicinali; da chi cercò e trovò l’ordine per la moltitudine di piante dando loro una posizione definita di un sistema, a Demetra, dea delle messi, che munita di falce spiega agli uomini che solo coltivando i cereali l’uomo poteva affrancarsi dalla sudditanza nera della fame; da chi riuscì ad assegnare una denominazione scientifica che non creasse confusione o ambiguità alla dea Atena, che insegna agli uomini ad arare la terra, a tessere, ma soprattutto a non osare competere con gli dei capricciosi.
La bella Anna fu sottoposta ad una mitragliata di domande: chi erano Igea ed Esculapio, e perché ambedue tenevano aggrovigliati a sé un serpente?
E, mentre le statue ieraticamente assorte stavano lì con i volti distesi e lo sguardo sereno, i visitatori si agitavano nel tentativo di apprendere quanto più potevano. Lo straniero sembrava impazzito d’interesse per tutte quelle opere d’arte, ed il suo trasporto, forse inconsapevolmente, si estendeva anche alla bella Anna che, parlando, diventava sempre più seducente. Egli la tallonava superando tutti gli altri visitatori e, raggiungendola, le chiedeva ora questo ora quello, standole sempre vicino come se fossero una coppia in visita ai viali.
Il piccolo semino posizionato sul bavero dell’uomo faceva fatica a reggersi, e si sentiva sballottato come un guerriero su una cavalcatura bizzosa, ma appena si accorse che i suoi compagni di beuta erano finiti sulla fibbia posteriore dello zainetto di Anna, diventò spericolato e, a costo di precipitare nel vuoto, fece di tutto per richiamare la loro attenzione. I semini sulla fibbia di Anna si accorsero del compagno sul collo del turista. Si videro, si riconobbero e si agitarono in segno di festa: erano tutti salvi e nessuno era finito schiacciato per terra. Erano contenti soprattutto perché consapevoli di avere realizzato quel sogno che nei lunghi anni di confinamento dentro il vetro da laboratorio si erano più volte reciprocamente confessati: erano liberi!
La loro irriducibile caparbietà era stata premiata e non sentivano più neanche il rimorso di aver dato la colpa al povero piumino, a cui tutto si poteva dire, tranne che essere disattento. Ma che importava ormai: paghi di aver ascoltato la storia della loro casa e portati a spasso, respiravano la dolce aria del mattino in quei luoghi di cui tutto sapevano, ma di cui ignoravano completamente la vera geografia. Di quella vigna del Gallo di cui avevano più volte sognato la vastità del mare verde di fichi d’india, adesso ne scoprivano la nuova veste con la molteplice ricchezza delle specie ospitate.
Queste coabitavano tranquille, ignare del misero imbriglio della quotidianità umana, a ridosso di una città caotica e sporca, in quel paradiso silenzioso dove il sole, filtrando attraverso le loro fronde, raccomandava agli uccelli di ridurre al minimo i loro concerti, per non disturbarne la pace.
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