Blog Ieri c'erano Sciascia, Pasolini, e i loro scritti “corsari, che ci imponevano di fare i conti con altre ragioni. Prima l'intellettuale engagé sgomitava nella mischia delle idee correnti, mentre l’intellettuale critico si isolava nella sua torre d’avorio per demistificare quelle idee, incline come Leopardi a irridere la fede nelle “magnifiche sorti e progressive” dei compagni di strada. Ma ora dove trovarli quei compagni di strada nella fanghiglia del presente che ha inquinato ogni anelito al mutamento?
Ogni tanto qualcuno si chiede, di fronte a un’emergenza: ma cosa fanno gli intellettuali? Dovrebbe chiedersi, invece: ma chi sono, e ci sono ancora, gli intellettuali? Cominciamo, allora, dal “chi sono”.
L’intellettuale, dal suo atto di nascita che risale al J’accuse di Zola (ma già la cultura russa aveva coniato la nozione di intelligencija), era l’uomo-contro, l’apostolo e il martire del dubbio e del dissenso, della conoscenza come ricerca infinita e della comunicazione come spiazzante alterazione della prospettiva, come revoca in dubbio di certezze consolidate e verità di Palazzo.
La sua dimora non va cercata, perciò, in una chiesa o in una lobby, in un partito o in un giornale, sugli schermi o sulle cattedre, ma sempre in partibus infidelium, in prossimità del rogo o dello scandalo, nel teatro di una coscienza tormentata dal rovello dell’autocritica, costretta a mettersi costantemente in discussione, a «contraddirsi» per «contraddire»: come non ricordare queste celebri – e abusatissime – parole di Sciascia? E come non affiancarle allo «scandalo del contraddirmi, dell’essere con te e contro te» esibito da Pasolini al cospetto delle ceneri di Gramsci?
È una coscienza, dunque, quella dell’intellettuale laico, inevitabilmente costretta a fuoruscire dalle proprie certezze, a demolire i propri miti e i propri “padri” (si trattasse pure del Voltaire amato da Sciascia, ma abiurato dal suo Candido), per confrontarsi con l’altro da sé, per incarnare credibilmente le ragioni dell’avversario. Come quando Sciascia nei suoi romanzi opponeva ai suoi virtuosi portavoce, ai suoi caparbi detective, statuarie figure di antagonisti, credibili portatori di ragioni e culture antitetiche, e quanto mai veri, pulsanti di sangue e nervi, di idee terribilmente coerenti: come quel procuratore Riches del Contesto che reincarna il Grande Inquisitore di Dostoevskij, come quel don Gaetano che in Todo modo celebra i funerali dello Stato immolandone i maggiorenti.
Ma non basta. Ricordiamo i congiurati della Controversia liparitana: «Abbiamo tentato di inventare il cristianesimo in un paese che è cristiano solo di nome; e abbiamo dato alla vuota maestà del diritto un contenuto di umanità, di giustizia». Dunque l’intellettuale è non solo chi semina il dubbio, ma chi nel vuoto di idee e di moralità, e nello svuotamento delle grandi tradizioni ideali, se le addossa tutte e tutte le incarna, perfino quelle che non gli apparterrebbero, per difenderle dai loro sacerdoti, dai loro epigoni tralignati, per restaurare una pienezza di idee e una dialettica di punti di vista almeno nel teatro della propria coscienza.
Sciascia, Pasolini. E i loro scritti “corsari”, che ogni giorno ci imponevano di fare i conti con altre ragioni, di guardare da altre prospettive; di dilatare e talvolta stravolgere la nostra percezione, di smascherare alibi e slogan diffusi dal Potere e dai suoi cantori. Ma quell’intellettuale, quel profilo e quella vocazione, forse sono svaniti. Sopravvive, al contrario, il tecnico in camice bianco che alla passione dell’interpretazione e della demistificazione ha sostituito l’acritica e servile messa a punto dell’Ingranaggio, il Libero Mercato di saperi neutri, l’incultura del management, la fabbrica dei crediti universitari.
Ma quanto ho detto finora, citando Sciascia o Pasolini, rischia di apparire anacronistico in un contesto, frattanto, vertiginosamente mutato, che è quello dell’anarchia digitale e della simultaneità telematica che azzera il tempo e lo spazio, appiattisce la Shoà e le guerre puniche nel medesimo limbo insignificante, ma al tempo stesso ci rende tutti protagonisti e responsabili – senza deleghe a un ceto separato di “colti” – dell’interpretazione, tutti investiti di un ”sacerdozio universale” e di un “libero esame” che farebbero invidia perfino a Lutero o agli anabattisti.
Prima dell’avvento di questa rivoluzione, i due modelli tra cui scegliere erano quello dell’intellettuale engagé, che si scommette nel presente e sgomita nella mischia delle idee correnti, e quello dell’intellettuale critico, che si isola nella sua sacrosanta torre d’avorio per demistificare quelle idee, smascherarne l’impostura, mantenere – a distanza – la lucidità necessaria a farlo: fiero della sua estraneità, della sua non-appartenenza, naturaliter anarchico, disobbediente, pronto a opporre alle istituzioni il suo “preferirei di no” come Bartleby lo scrivano; e diffidente e dissenziente in primo luogo nei confronti di quelli che dovrebbero essere i suoi compagni di strada, i suoi naturali alleati sulla via del cambiamento: incline come Leopardi a irriderne la fede nelle “magnifiche sorti e progressive”, ostinato come Sciascia a contestarne gli irrigidimenti ideologici e la prassi affaristica, compromissoria, omertosa.
Ma ora? Chi sono quei compagni di strada? Dove trovarli? In una politica che nella fanghiglia del presente ha offuscato le identità e le differenze, ha inquinato ogni anelito al mutamento? In una università ridotta ad azienda, svenduta al mercato, spossessata del pensiero critico? In una cultura malamente “amministrata” da una politica che reclama questuanti e portaborse, invece di ritrarsi con pudore al cospetto di un libero pensiero che non vuole e non può essere “amministrato”, e di una ricchezza di realtà creative e di beni culturali che andrebbero solo forniti di visibilità, di risorse, di servizi?
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