Recensioni È una drammaturgia pregna quella di “Giuda”, ultimo lavoro di Gioacchino Palumbo (che cura anche la regia) - in scena fino al 23 febbraio a Catania - che affonda le sue radici nella letteratura contemporanea e in un ricco substrato di psicologia e filosofia. Non è un processo all'Iscariota, al quale dà voce e corpo un passionale Nicola Costa, è piuttosto un incontenibile flusso di coscienza, nella quale il dolore pervade sia il racconto sia il silenzio. Ad un Gesù imbrigliato nei suoi dissidi ultraterreni, si contrappone un Giuda sanguigno, mortale, che si pone costantemente interrogativi
È una drammaturgia pregna quella di “Giuda”, ultimo lavoro di Gioacchino Palumbo – in scena fino a domenica 23 febbraio alla Cappella Bonajuto di Catania – che affonda le sue radici nella letteratura contemporanea oscillando fra le parole di Amos Oz, Saramago e Borges e un ricco substrato di psicologia e filosofia. Lo stesso Palumbo, qui anche in veste di regista, non ne fa mistero anzi introduce alla platea il percorso che l’ha condotto all’opera, vale a dire la necessità di esplorare la radice ebraico-cristiana che sorregge, insieme a quella greca, la cultura europea. Un percorso quindi prima di tutto personale che darà poi vita a un trittico ideale composto dalla “Leggenda del Grande Inquisitore” di Dostoevskij e da “Il discepolo di Tommaso”, dello stesso Palumbo. Lungi dall’essere un processo a Giuda, al quale dà voce e corpo un passionale Nicola Costa, ci troviamo piuttosto di fronte a un incontenibile flusso di coscienza, di joyciana memoria, che prende le mosse dall’opera di Giuseppe Berto nella quale il dolore pervade sia il racconto sia il silenzio.
Se “Nel male oscuro”, con il quale si aggiudicò il Premio Viareggio e il Campiello, Berto ripercorre il complesso rapporto con il padre utilizzando la scrittura come terapia, su consiglio dello psicanalista Nicola Perrotti luminare freudiano tra i fondatori della Società psicoanalitica italiana, per guarire dalla nevrosi che da tempo lo affliggeva, il Giuda di Palumbo invece, è vittima di quel dissidio proprio dell’uomo illuminato il quale vorrebbe compiere un atto di fede verso l’Altissimo ma allo stesso tempo è in balia dei suoi tormenti e della sua finitezza costringendolo nel caso specifico ad avere un rapporto conflittuale con Giovanni e gli altri apostoli.“Nemmeno io credevo, ma ti amavo” dice Giuda e sebbene il profeta Gesù sia in grado di compiere miracoli veri, in lui permane il sospetto.
Così, con le mura bizantine a fungere da fondale, tra un leggio che ricorda un inginocchiatoio, uno sgabello e un calice di metallo – questi ultimi più ad arricchire la scena che funzionali – prende vita la lettura teatralizzata di Costa, avvolto in questo mantello di juta marrone con dei sandali francescani ai piedi; strutturata come un lungo monologo a più voci nel quale oltre a raccontare e interpretare se stesso, l’Iscariota, delinea anche gli altri personaggi. È da questa interpretazione che si evincono molti aspetti narrativi e introspettivi, in particolare Gesù viene presentato come rigido, distaccato, imbrigliato nei suoi dissidi ultraterreni, frutto non dimentichiamo di una mente umana, contrapposto a un Giuda sanguigno, mortale, che si pone costantemente degli interrogativi. In entrambi i casi Costa si destreggia perfettamente, anche se naturalmente dà un risalto maggiore a Giuda.
L’attenzione dall’inizio alla fine è puntata su di lui, ne seguiamo le origini, l’impegno volto a trovare un Messia che possa finalmente liberare il popolo israeliano dal dominio romano, accompagnandolo in quell’ultima battuta con la quale si scagiona agli occhi del mondo intero: “Avevi preteso tutto Rabbi (rivolto a Gesù), e tutto ti è stato dato”. Non ci troviamo di fronte a un testo religioso in senso stretto quanto piuttosto di fronte a una speculazione sull’uomo e forse a una ricerca spirituale, nel preambolo di un testo denso, raffinato, dove le parole hanno un peso e costituiscono un puzzle complesso, finito, anche se ancora alla ricerca di un’identità semantica e di messa in scena vera e propria.
Prevale ancora l’impronta letteraria, sebbene Costa nutra il testo di vitalità e trasporto, accompagnando la sua voce, intensa e calda, con un’espressione compenetrata e a un gesto compassato che deflagra solo sotto finale quando la musica di Hans Zimmer sovrasta la poesia, insieme alle battute urlate in faccia al pubblico di cui forse avremmo fatto volentieri a meno. Il tappeto sonoro, che si snoda attorno ai temi musicali del film di fantascienza “Interstellar”, diventa parte integrante della performance per il tono elegiaco arricchito da una tessitura fresca, figlia di una scrittura contemporanea, a cui sottende ancora una volta il senso della ricerca. C’è dunque un’altra via che non sia il dolore per l’uomo? A quanto pare no, Giuda si sacrifica per dare inizio al progetto profetizzato dal figlio di Dio. Il suo è un tradimento che finisce per diventare funzionale all’evoluzione del racconto. Come il Messia in cui si mescolano verbi, voci, morti e vivi, anche questo spettacolo richiede, epurato forse da alcuni elementi controversi come quando si parla dei discepoli, una riflessione attenta e ponderata affinché quel vuoto tanto declamato possa riempirsi e l’uomo possa finalmente avere consapevolezza del suo esistere.
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