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Padrenostro, l’incomunicabilità genitoriale nell’Italia degli anni di piombo

Buio in sala Il film di Claudio Noce, in sala dal 24 settembre, e per cui Pierfrancesco Favino ha vinto la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile, ci riporta negli anni dell’estremismo politico contro i poteri dello Stato, ma invece di un’analisi scrupolosa dei fatti, punta a diverse tematiche: le figure genitoriali, la percezione infantile della vulnerabilità in una realtà violenta, l’importanza delle radici culturali

Premio Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile a Pierfrancesco Favino, il film  Padrenostro  (nelle sale dal 24 settembre) di Claudio Noce ci riporta negli “anni di piombo”, come li definì Sergio Zavoli. Siamo nel 1976,  nel periodo in cui gli umori  rivoluzionari armavano  l’estremismo politico contro i poteri dello Stato.

Valerio (Mattia Garaci) 10 anni, esile e bellissimo, è un bambino timido e taciturno: frequenta una scuola cattolica ma non lega con  i compagni. Ha un amico immaginario che va a trovare nel sottotetto di casa sua; gli porta da mangiare e con lui gioca esultando a subbuteo; non racconta ad altri la sua esperienza quotidiana fatta di appuntamenti, né nessuno sembra accorgersi del cibo che sottrae a tavola per il suo amico fantastico. Una mattina Valerio sente una sequela di spari ed allora, non visto, osserva cosa stia accadendo. Assiste dal terrazzo di casa all’attentato ai danni del padre Alfonso (Pierfrancesco Favino) , vicequestore calabrese di stanza a Roma, impegnato nella lotta contro il terrorismo. La madre (Barbara Ronchi), scalza e in vestaglia,  si precipita in strada tentando di soccorrere il marito. Valerio è dietro di lei, sgomenta davanti alla scena drammatica di un terrorista che giace  per terra, insanguinato e ferito a morte, e di cui Valerio ne incrocia l’ultimo sguardo.

Pierfrancesco Favino e Mattia Garaci (Valerio) nel film Padrenostro

Nei giorni successivi, poiché nessuno si è accorto che Valerio ha visto tutto, la vita in famiglia riprende, in un’apparente normalità scandita nei suoi ritmi; manca solo il padre che è lontano, gli  viene detto, per motivi lavoro. Attraverso gli occhi di Valerio  impariamo lo stupore e l’incredulità del bambino, il non poter credere che gli si possa tacere una cosa talmente grave che riguarda anche la sua vita. D’altronde siamo negli Anni 70  e, come nelle abitazioni c’era una netta demarcazione tra ingresso, corridoio e stanze, le cui porte dovevano stare chiuse e si origliava dai duplex , anche l’assetto familiare era settato in argomenti per grandi e quelli per bambini, e le verità sottaciute, e spesso edulcorate, venivano date con lo stillicidio dell’ambiguità. Il rendersi conto di non poter controllare la propria vita, ma di essere relegato entro steccati  invalicabili all’interno dei quali si può mangiare, dormire e fare l’ubbidiente a scuola, disorientano il bambino.

Su questa infanzia di solitudine familiare e scolastica, dal nulla si materializza Christian (Francesco Gheghi), allampanato e svogliato Lucignolo  che lo affascina dapprima con la sua perizia nel palleggiare, e poi lo attrae e lo coinvolge in esperienze per Valerio impensabili. Nasce una amicizia strana, suggellata da un patto di sangue che si rafforza quando, giunta l’estate, la famiglia decide di tornare nei luoghi di origine di Alfonso: l’anima solitaria ed ambigua raggiunge inspiegabilmente quella famiglia blindata, e la sua presenza determinerà un cambiamento nella vita di tutti.

Francesco Gheghi, nel ruolo di Christian, e Mattia Garaci in quello di Valerio

Il film, che parte dalla vicenda personale del regista Claudio Noce (il padre, responsabile dell’antiterrorismo del Lazio e dell’Abruzzo, subì realmente un agguato), piuttosto che un’analisi scrupolosa dei fatti accaduti punta diverse tematiche, come le figure genitoriali, la percezione infantile della vulnerabilità in una realtà violenta, l’importanza delle radici culturali.

Il film, concepito in un unico tempo, tiene emotivamente sulla corda, ma si sostanzia nel messaggio del registra al suo , ma anche a tutti i padri, di quegli anni che non si consentivano la debolezza di un abbraccio o di una carezza, delegando tutto alle cure materne, che a loro volta dovevano essere rigide e misurate.  Nel film prende corpo via via  la figura di questo padre assentissimo e presentissimo. Burbero ma tenerissimo con quella fragile e leggera creatura, lontana anni luce da lui, per corporeità e colori, solo nei luoghi della sua infanzia. Ritornando anch’egli figlio, troverà  finalmente la possibilità della comunicazione emotiva che permetterà il ricongiungersi tra padre e figlio nelle reciproche ed ostinate ricerche  dell’amore e del riconoscimento.

 

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