Blog Faccio a pugni con Hemingway perché è l'unico modo per accostare quel vecchio combattente, egocentrico e ipertrofico. A sedici anni mi sedusse "Per chi suona la campana" perché Hemingway seduce, ma (mi contraddico?) non mi piace. E' un D’Annunzio americano abile nel gioco delle tre carte tra arte, vita e un ego smisurato? O un nichilista romantico come Robert Jordan di "Per chi suona la campana"?
Faccio a pugni con Hemingway, forse è l’unico modo per accostare quel vecchio combattente, egocentrico e ipertrofico. A sedici anni mi sedusse Per chi suona la campana, m’insegnò che battersi per una causa o amare una donna hanno lo stesso sapore aspro e tiepido d’ebbrezza e perdizione.
Perché Hemingway seduce, ma (mi contraddico?) non mi piace. E mi contraddico se dico che non lo amo, e non amo affatto il turpe spettacolo della corrida, eppure il suo libro che salvo è Morte nel pomeriggio, che è un trattato sulla (e un’apoteosi della) corrida?
Eppure amo Dolores Ibarruri, la Pasionaria, che scende nell’arena, abbraccia il toro e grida: “Il toro sono io”. Ma è anche vero che piango recitando il Lamento di Garcia Lorca in morte del suo amato torero: “Sui gradini salì Ignazio con tutta la sua morte addosso, cercava l’alba, e alba non era, cerca il suo dritto profilo e il sogno lo disorienta, cercava il suo bel corpo e trovò il suo sangue aperto”. E tanto le “veroniche” dei calciatori che ho amato (Rivera, Garrincha, Baggio, Maradona) quanto i guizzi di stile e intelligenza dei saggisti che amo e tento invano di imitare (Ripellino e Sciascia su tutti) mi fanno sempre pensare alle eleganti movenze del toreador, alla sua brama dell’azzardo. E non è ogni ricerca di bellezza una sfida sfacciata e baldanzosa alla morte?
Contraddizioni? Forse occuparsi di letteratura non è che fare i conti con le proprie contraddizioni, e amarle perché palpitano di vita vera, non esalano il lezzo di morte delle certezze di sedicenti scienze e religioni. E tra le nostre vitali contraddizioni e la tormentata bellezza d’un testo, tra le nostre attese inappagabili e le ammalianti chimere di cui si nutrì un autore, forse non può esservi che una partita a pugni, una furiosa colluttazione come quella di Giacobbe con l’Angelo.
Ma dove i pugni di Hemingway diventano sleali, perché inferti sotto la cintola, è in Festa mobile. In quel libro lo scrittore ormai esausto spettegola vilmente sulle esigue dimensioni del pene di Scott Fitzgerald, inadatte a soddisfare Zelda. Non è solo una villania, è una chiave di lettura: tutta la narrativa di Hemingway, quella buona e quella meno buona, si potrebbe definire “erettile”, come se tentasse di aggiungere robusti additivi a una virilità stremata e turgide iperboli a una lingua snervata.
Un D’Annunzio americano, abilissimo nel gioco delle tre carte, due che si chiamano arte e vita magistralmente scambiate sotto i nostri occhi e la terza, il jolly truffaldino, è un Ego smisurato e insaziabile? O un nichilista romantico, come il Robert Jordan di Per chi suona la campana, col suo sacrificio suicida consumato in terra di Spagna ma, più a fondo, là dove “tutto quanto era “nada y pues nada y nada y pues nada”?
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