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“Processo” a Vittorini, ecco perché va assolto

Blog La mia arringa difensiva del 2 settembre scorso al processo in seno al Premio letterario Elio Vittorini, contro lo scrittore siracusano, "reo" di non aver pubblicato “Il Gattopardo”. L’accusa era sostenuta da Salvatore Ferlita. Lo scrittore è stato assolto dalla giuria popolare con 17 voti contro 13

Qui di seguito la mia arringa difensiva al processo siracusano del 2 settembre contro Vittorini, reo di non aver pubblicato “Il gattopardo”. L’accusa era sostenuta da Salvatore Ferlita. Lo scrittore è stato assolto dalla giuria popolare con 17 voti contro 13.

Amici, Siracusani, compatriotti, prestatemi orecchio; io vengo a render giustizia a Elio, non a tesserne l’elogio. Il male che gli uomini fanno sopravvive loro; il bene è spesso sepolto con le loro ossa; e così sia di Elio. Il nobile Ferlita vi ha detto che Elio era soggetto a incresciosi errori; se così era, fu un ben grave difetto: e gravemente Elio ne ha pagato il fio. Qui, col permesso di Ferlita – ché Ferlita è uomo d’onore –, io prendo la parola in una pubblica assise di cittadini da affrancare dal dubbio, da restituire a verità e giustizia.

E se ho preso la parola rubandola a Marco Antonio, Shakespeare mi perdonerà; gli è che il mio avversario merita un’adeguata replica: egli giunge dalla capitale della nostra isola, la stessa gloriosa e boriosa Palermo in cui visse il Tomasi di Lampedusa godendo delle rendite avite e degli onorari d’una consorte d’ingegno; egli, oggi mio temibile avversario, proviene altresì dalla scuola del suo e mio maestro Natale Tedesco ai cui allievi, miei confratelli, mai potrei recar torto alcuno.

Ferlita asserisce che il romanzo del principe palermitano meritava migliore udienza, e Ferlita è uomo d’onore né io saprei smentirlo. E come sottrarre alla pigra Palermo patrizia dei Gattopardi, dell’abate Meli e dell’abate Vella, di Lima e Ciancimino, di Ficarra e Picone, un alloro letterario che le mancava da sette secoli, dalla corte di Federico II, unico trofeo da esibire a fronte della temuta Catania operosamente borghese e coraggiosamente critica di Verga, De Roberto, Brancati, o della vostra Siracusa di Vittorini e Quasimodo, per non dire dell’entroterra aretuseo che diede i natali a Sebastiano Addamo e a Manlio Sgalambro, ad Antonino Uccello e a Giuseppe Fava?

Povera Palermo, in tutt’altre faccende affaccendata, ruminando indigeste panelle e subendo come il vecchio Atlante il peso immane della burocrazia di Palazzo d’Orléans! Tra le sue magnifiche quinte si aggirava il principe Tomasi, distillando preziose metafore attinte dalle grandi letterature europee ma anche, malauguratamente, manifestando discutibili entusiasmi: come quando tripudiava per le bastonature fasciste a Giovanni Amendola, come ci ha svelato spulciandone i carteggi il preclaro collega Silvano Nigro, e meglio sarebbe stato che ci avesse risparmiato tali esecrabili esternazioni.

Elio Vittorini

Ma veniamo al nodo da sciogliere, al rifiuto opposto dal celebre e influente Vittorini alla pubblicazione del libro dello sconosciuto patrizio palermitano. Quanto rumore, quale sussulto di indignazione per un errore che mi riservo di dimostrare che errore non fu; quanto farisaico sdegno nella comunità dei dotti, che invece sorvola su altri e più deplorevoli rifiuti editoriali, come quello di Gide che non pubblicò Proust o di Italo Calvino che non volle pubblicare Guido Morselli, il quale se ne dolse al punto di togliersi la vita prima che Adelphi gli regalasse un postumo e meritatissimo successo! Eguale indignazione manifestò, e manifesta ancora (questo infondato processo lo dimostra), un’opinione pubblica dal facile anatema scagliato su un innocuo letterato ma pronta all’assoluzione interessata di rapaci politicanti, un’opinione pubblica immemore e fatua, che versa lacrime per giorni e giorni sulla scomparsa di Raffaella Carrà e si dimentica dopo poche ore di quella di Gino Strada.

Ma la sto tirando per le lunghe, e non vorrei che quest’arringa sembrasse governata dalle frustranti strategie dilatorie già adottate dal bizzarro autore del Tristram Shandy, né vorrei che all’esimio collega dell’accusa e a voi, signori della corte, possa parere ch’io esiti a sciogliere quel nodo, ch’io non sappia contrastare gli argumenta criminis così brillantemente sciorinati dalla pubblica accusa. Perciò, per dirla come il re Pipino, sarò breve.

I rifiuti opposti dall’autore di Conversazione in Sicilia al creatore di don Fabrizio e di Angelica Sedara sono due. Ma il primo, quello del 1956 per Mondadori, non fu un rifiuto: Vittorini non aveva nemmeno letto il testo e fecero fede le riserve espresse dai tre lettori, Adolfo Ricci, Sergio Antonielli e un raffinato intellettuale come Angelo Romanò, che giudicò Il gattopardo addirittura come «un insieme di bozzetti» scritti con «vivacità aggraziata» ma che come libro non reggevano. E tuttavia Vittorini non bocciò Tomasi ma gli fece consigliare di rivedere e migliorare il testo. Il secondo episodio, l’anno successivo per Einaudi, vide invece un netto rifiuto, ancorché motivato dalla lunga coda di testi ancora da pubblicare in una collana, quella dei “Gettoni”, ormai satura.

Ma per l’appunto dei “Gettoni” si trattava, ovvero d’una collana cui Vittorini aveva imposto il suo taglio decisamente sperimentale e innovativo, la sua attenzione al “come” più che al “cosa” scrivere, la sua vitale e onnivora curiosità per tutto ciò che di nuovo e di eversivo andava maturando nei laboratori intellettuali delle “città del mondo”, la sua predilezione per una letteratura che proponesse “nuovi doveri” in forma di “simboli per l’umana liberazione”.

E che c’entrava, con quest’idea di letteratura e col taglio dei “Gettoni”, un romanzo di sontuosa e decadente bellezza come Il gattopardo? Un romanzo che era un’elegia e anzi un epicedio, un requiem per un mondo e per un ceto già morti da un secolo, da quell’Ottocento che al nostalgico Tomasi offriva modalità espressive, scelte strutturali e approdi ideologici, e fosse pure un Ottocento che nel Gattopardo arrivava a lambire il primo Novecento di Proust.

La prima edizione de “Il Gattopardo” del 1958

Grande romanzo, certo, Il gattopardo, e sia pure d’ispirazione e forma per l’appunto ottocentesche, e sia pure d’ideologia decisamente moderata e conservatrice: oltre a Vittorini, intellettuale sempre proiettato al futuro anziché ripiegato sul passato, se n’era accorto Sciascia, il cui Consiglio d’Egitto fu salutato non a caso come un anti-Gattopardo, ma che già nel ’59 aveva manifestato fastidio per quel “gran signore”, Tomasi di Lampedusa, che definiva il popolo dei reietti «sgradevole manifestazione della condizione umana» e che per bocca del suo portavoce romanzesco, il principe di Salina, paragonava gl’insetti che lo torturavano di notte alla folla dei votanti nel plebiscito annessionista.

E poteva piacere, tutto questo, al progressista, all’illuminista, al sovvertitore Elio Vittorini? Diciamo la verità: se noi abbiamo superato quelle ubbie, di Vittorini e di Sciascia, è non solo in grazia dell’indubbia qualità del romanzo lampedusiano, ma perché abbiamo imparato a leggerlo sovrapponendovi le immagini del capolavoro cinematografico ricavatone da Visconti: radicale revisione se non addirittura ribaltamento del romanzo, cui sovrapponeva i fondali sgargianti di un’epica garibaldina del tutto estranea a Tomasi e al suo “principone”, che a Garibaldi davano addirittura del “cornuto”, capo di facinorosi; e nella scena dell’incontro a casa Ponteleone con quel Pallavicino vincitore ad Aspromonte, compiaciuto giustiziere delle «smargiassate» garibaldine, Visconti correggeva drasticamente l’atteggiamento del principe, dalla commossa gratitudine professata nel romanzo allo sdegno schifato dipinto sul volto di quel magnifico Burt Lancaster.

Ripeto: sontuoso romanzo decadente, Il gattopardo, ben meritevole di pubblicazione, ma non in una collana diretta da Vittorini: sarebbe stato come pretendere la cooptazione d’un monarchico in un governo delle sinistre, o un assolo della Callas in un concerto dei Rolling Stones.

Statua di Giuseppe Tomasi di Lampedusa a Santa Margherita Belice

E che c’entrava, infine, quello struggente testamento d’un principe che ancor oggi ci commuove, quel nobile approssimarsi d’un uomo e d’un ceto al funebre appuntamento con la “stella del mattino”, che c’entrava con il figlio del ferroviere, con il self made man e autodidatta Vittorini, con il Vittorini formatosi nella bottega siracusana dell’anarchico Failla, con il Vittorini che fu rivoluzionario perfino da fascista e tanto più nel dopoguerra, parte lui stesso e corifeo del “mondo offeso” e perciò sempre ostile ai ceti dominanti?

Consentitemi, signori della corte e amici aretusei, un’ultima considerazione, che a mio parere più d’ogni altra ci obbliga a una piena e perfino grata assoluzione. Questa disputa si colloca nell’ambito d’un premio che è intitolato a Vittorini non solo perché si tiene nella sua Siracusa, ma perché si ispira alle sue idee e alle sue scelte, privilegiando opere innovative, nuovi linguaggi, inedite prospettive, ardite sperimentazioni: come quelle seguite, incoraggiate, divulgate e edite da Elio Vittorini dagli anni di “Solaria” e del “Bargello” a quelli del “Politecnico”, dai “Gettoni” al “Menabò”, fino al “Nuovo Politecnico” di Einaudi che formò la mia generazione, quella degli “astratti furori” del Sessantotto, della “immaginazione al potere”, delle barricate opposte a tutto ciò che sapeva di autorità e di privilegi, di censo e gerarchie, di immobilismo e trasformismo, di emblemi e di chimere coperte dalla polvere e sia pure dorata di tempi trascorsi e insopportabilmente iniqui.

E allora, amici, Siracusani, compatriotti, no, non sono venuto a seppellire Elio con un verdetto da maramaldi ma a rendere giustizia a un uomo e a uno scrittore anche i cui errori – perfino quelli, posto che davvero lo fossero – erano vitali e generosi azzardi, erano lame affilate dall’arrotino Calogero in vista della “umana liberazione”.

Signori della corte, ho finito, ma lasciate che deponga la mia toga virtuale ai piedi d’un nume la cui icona, oggi, stavamo per profanare. E che gli chieda perdono, rinnovandogli a nome di tutti, anche del collega dell’accusa, la nostra gratitudine. Grazie, Elio.

 

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