Blog «L’italiano non è l’italiano: è il ragionare»: lo diceva il professor Franzò della "Storia semplice" di Sciascia al procuratore ex allievo, ignorante e arrogante. E bisogna ripeterlo ai tutti i ministri dell’istruzione che hanno messo al bando il sapere umanistico che il Mercato, dio dei governanti tutti, ritiene improduttivo. Insegnare l'italiano significa insegnare a scrivere. E attraverso la scrittura si organizza, e si oggettivizza, la caotica naïveté del parlato
«L’italiano non è l’italiano: è il ragionare»: lo diceva il professor Franzò della Storia semplice di Sciascia al procuratore ex allievo, ignorante e arrogante. E bisogna ripeterlo ai ministri dell’istruzione dell’ultimo quarto di secolo, che hanno messo al bando il sapere umanistico che il Mercato, loro dio e dei governanti tutti, ritiene improduttivo; bisogna ripeterlo a linguisti, semiologi e tecnici della comunicazione che hanno privilegiato le sconcezze del “parlato” depauperando una lingua un tempo ricchissima; bisogna ripeterlo ai pedagogisti e anche a noi pigri docenti d’italiano, che – dalle scuole secondarie dove s’ignora la grammatica alle università dove latitano prove scritte e corsi di scrittura – subissiamo gli allievi di metastasi critiche e teoriche anziché regalare bellezza, fantasia, speranze e (che è lo stesso) ricchezza espressiva.
Un tempo le facoltà umanistiche si sostenevano su due fondamenti: le storie e le letterature, ovvero le grandi narrazioni che hanno dato un senso e uno scopo per millenni al genere umano e trasmesso valori, attitudini critiche, possibilità di immaginare mondi diversi e migliori. Oggi quelle discipline, ridotte all’abbicì e spezzettate in grotteschi “crediti”, contano meno d’una Diuresi digitale o d’una Esegesi del Sarchiapone: prevalgono le tecniche, le “competenze” hanno sostituito la conoscenza, s’insegna senz’accorgersene ad assuefarsi – e tutt’al più a oliarne qualche rotella – all’ingranaggio sociale. E la didattica a distanza imposta da questa infame pandemia completa l’opera, privando l’insegnamento del “fattore umano”, dell’“anima”, riducendo i dipartimenti a risibili Scuole Radio Elettra.
Ma ciò che fa, della difesa dell’italiano e della letteratura, una trincea irrinunziabile, una battaglia che non ha niente a che vedere con la difesa corporativa d’una disciplina e d’un ceto ma coinvolge, addirittura, i destini della nazione, è una posta in gioco di allarmante, e duplice, urgenza.
Primo: insegnare l’italiano e gli auctores non è come insegnare questa o quella disciplina, perché significa insegnare a scrivere. E scrivere, articolare compiutamente il linguaggio, significa attingere una sintassi, un ordine, dare una forma, un’interpretazione e un senso, al mondo, alla realtà. Imparando a scrivere, s’impara a pensare, a conoscere, a capire: dovrebbe esser ovvio, ma non lo è, che solo attraverso la scrittura il flusso incontrollato e impressionistico dei pensieri si fa ragionamento, complesso e profondo; solo attraverso la scrittura si organizza, e si oggettivizza, la caotica naïveté del parlato.
Secondo: si parla tanto, e si fa tanta inutile retorica, sull’unità della “patria”. Che è un dato, certo, da affermare e difendere: ma che più e prima che ai fratelli Bandiera o ai martiri di Belfiore si deve ai letterati. Già, proprio a loro: a Dante e Petrarca, a Machiavelli e Leopardi, ai poeti che s’improvvisarono cospiratori e combattenti nel Risorgimento. Loro hanno letteralmente inventato l’Italia, e non solo quell’improbabile nozione politico-geografica, ma il patrimonio di valori, di costumi, d’immagini, di concetti, e su tutto di parole per dirli, che è a tutt’oggi la riserva aurea, la contropartita in idee e valori, della nostra unità nazionale. Smantellarla è com’era, una volta, sguarnire la reggia e disarmare i confini: è consegnarsi al deserto dei Tartari, alle larve dell’omologazione livellatrice e del particolarismo egoistico.
Infine: si riformi pure e con l’auspicabile buon senso, ma in primo luogo si riformi la condizione degli insegnanti. Se la società italiana è ancora profondamente ingiusta, è anche per lo scandaloso squilibrio fra il reddito d’un professionista o d’un manager pubblico, d’un notaio o d’un dentista, e quello d’un professore di scuola media, figura che una società che tenga al suo futuro, e che non si occupi delle televisioni e dell’intrattenimento più che dell’educazione, dovrebbe coltivare con specialissime cure, come chi assolve un delicatissimo mandato.
Figura, certo, demotivata, e ora al centro d’impietose contestazioni: ma perché dovrebbe dare di più, per quella manciata di spiccioli, per quella scarsa considerazione in cui è precipitata da un trentennio ad oggi? Chi si rammenta dei professori d’una volta, del peso e del ruolo che esercitavano nella società civile? Riconsegnate loro quella dignità e quella fierezza, quel mandato, cari ministri; e anziché blaterare in TV ripassatevi un po’ di Dante, di Ariosto, di Leopardi. Il potente e illetterato procuratore di Una storia semplice, potente perché illetterato, è la vostra controfigura: «Con meno italiano» gli dice l’anziano professore «lei sarebbe forse ancora più in alto».
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