Libri e Fumetti È la scrittrice etnea la regina del romanzo estivo con "Il delitto di Via Etnea" pubblicato da Fratelli Frilli Editori, un giallo atipico sulla città di origine dell'autrice, toscana di adozione, che la fa soffrire a distanza perché sembra essere tornata quella sporca e invivibile degli anni '80: «Rispetto ai miei primi romanzi, non ho volutamente inserito ironia, perché il contesto richiede tutta la drammaticità possibile»
Nel 2020 uscì un romanzo dal titolo “La traccia del pescatore” (Golem Edizioni), che impressionò pubblico e critica tanto che l’opera, l’anno successivo, giunse alla finale del Premio Etnabook “Cultura sotto il vulcano” di Catania. Una penna che non lascia intendere influenze, seppur i suoi autori preferiti la scrittrice etnea Roberta Castelli li ha. Dell’ex blogger, dunque, appasa nell’editoria indipendente suscitando un certo clamore, se ne coglie ottima intuizione e fine ricerca della parola; così l’autrice, trapiantata in Toscana, prosegue a meravigliare i palati di certi interessati alla critica letteraria. Nel febbraio di due anni fa uscì il racconto “Mandorlo d’autunno“ che venne pubblicato sulle pagine di Parma del quotidiano la Repubblica. Successivamente anche un altro racconto, “Asia” (Odio e Amore noir – Fratelli Frilli Editori, 2021), suscitò interesse. Nel 2022 ritroviamo nuovamente la Castelli per Golem con “La bambina di cera“ e la scrittrice di nuovo supera le selezioni del Premio Etnabook, arrivando tra i semifinalisti.
Cresce la pregiata penna dell’autrice che si fa notare in tutto lo Stivale, dando onore alla città e ai suoi concittadini che amano sempre ricordare chi li rappresenta nelle aree dell’arte, della storia e della cultura, cosicché con “Alla ricerca di Turi testa grossa“ (Quei sorrisi noir – Fratelli Frilli Editori, 2022) e “Eternità“, con l’incipit del maggior maestro contemporaneo in materia di giallismo tra fiction e realtà, lo scrittore, conduttore televisivo e giornalista Carlo Lucarelli (Meraviglia – Bacchilega Editore, 2023 – Finalista Turno di Notte), si sostanzia il prodromo per il battesimo più importante. E’ infatti uscito da qualche giorno, per Fratelli Frilli Editori, “Il delitto di via Etnea. Un’indagine catanese di Mariolina e Manfredi” (pp. 208, € 16,90, in e-book € 7,99), un noir che viaggia sul doppio binario dell’esposizione e della forza di ogni personaggio descritto, che non aggancia velleità di eroismi a finzioni di commissari, quanto a chi ha abbandonato certa professione per un dolore non risolvibile in breve.
Partendo dalla sinossi ufficiale, che si apre con il personaggio più simpatico, Manfredi, un brillante poliziotto che ha lasciato il lavoro quando il destino, con un tiro mancino, gli ha tolto ciò che di più prezioso aveva, procediamo con Mariolina, rimasta per sempre promessa sposa, sfiorando una felicità che non ha fatto in tempo ad afferrare e perdendo l’unica cosa che le rimaneva: il senno. L’amicizia che si instaura tra i due è nata per caso, mentre erano alla ricerca di risposte difficili da scovare; oltre alla passione per i casi da risolvere, in comune hanno la capacità di vedere e sentire cose che altri non riescono a percepire. In questa strana e ufficiosa indagine, i due si muovono tra le vie del malfamato quartiere San Berillo (Bottegaccia nel romanzo), cercando di capire chi possa avere ucciso Momar, il senegalese che vendeva cd in via Etnea.
Abbiamo avuto l’onore di incontrare Roberta Castelli che ci ha tanto erudito sulle scelte e sull’innovazione stilistica e del contenuto lanciata per questa scommessa, già vinta in buona parte.
Come mai ha deciso di dedicare un noir così nuovo, quasi atipico, ambientato proprio a Catania, che non è solo la città dove tutto si svolge quanto la protagonista assoluta?
«In realtà, io ho sempre scritto ambientando le mie storie in Sicilia, una terra che amo e che mi ha visto crescere. Come mi piace dire, è la mia musa ispiratrice. A volte, ne ho approfittato per mettere in risalto le meraviglie offerte dalla nostra splendida Isola e altre, invece, ho voluto raccontare le criticità che da troppo tempo vengono ignorate, creando un degrado tossico che si autoalimenta con il trascorrere del tempo. Nei romanzi precedenti ho descritto Aci Castello, il mio amato paese, ma adesso ho sentito il bisogno di allargare il raggio, dedicando a Catania lo spazio che merita, senza cadere nei soliti cliché. Accantonando il mare, il buon cibo e il sole, stavolta mi sono concentrata su quello che non va e che non genera bellezza. Pur vivendo lontano, ho famiglia e amici in Sicilia e so quanto sia difficile convivere con le solite contraddizioni locali che, a lungo andare, stanno facendo pendere l’ago della bilancia a sfavore della bellezza. Non si può vivere per sempre di rendita e il vento del cambiamento deve essere alimentato da ogni singolo cittadino. Per assurdo, proprio chi si lamenta è spesso artefice, nel proprio piccolo, del decadimento di una città che, dobbiamo ammetterlo, ha vissuto tempi migliori.»
Perché l’ha deciso?
«Perché il compito di una scrittrice è anche quello di denunciare e di diffondere consapevolezza, accendendo un faro su problematiche complesse che devono essere risolte, senza continuare ad assecondare le false illusioni generate dalle consuetudini. Ci abituiamo a tutto, degrado compreso, e a un certo punto non lo vediamo più, smettendo persino di cercare una soluzione. Malcostumi radicati sembrano diventati la normalità e la gente pare cieca. La nostra amata e martoriata Sicilia merita rispetto e attenzioni, in primis da parte di chi ne è figlio. Quindi, il mio “perché” è rivolto a chi mi legge: perché nessuno fa niente? Perché la soluzione migliore sembra diventata l’indifferenza? Perché i siciliani hanno perso la voglia di lottare? E quando è successo? Perché i cambiamenti devono essere sempre in negativo? Potrei andare avanti all’infinito, ma non mi sembra il caso. Vorrei solo che le generazioni future potessero vivere e crescere nella terra che amano, senza essere costrette ad andare via. Vorrei che fossimo in grado di sfruttare a nostro favore quello che la natura ci ha regalato con tanta generosità, smettendola di buttare munnizza ovunque. Vorrei che l’indifferenza che ho appena citato fermasse la sua corsa perché ferisce, e uccide, e genera dolore. Essere consapevoli dell’immensità di un problema è il primo passo verso una reale soluzione.»
Qual è il momento apicale?
«La risposta non può essere univoca, perché ogni lettore troverà un momento apicale diverso, pur leggendo lo stesso libro. Quello che fa la differenza è la percezione, che muta in base al proprio trascorso. Per quanto riguarda me, ho vissuto con estremo trasporto l’intero romanzo. Mi sono sentita molto coinvolta mentre descrivevo le vie della città, mi sembrava di essere lì. Alla stessa maniera, ho messo nero su bianco emozioni forti, trasversali, che risiedono in ogni essere umano, elevandolo o facendogli toccare livelli infimi di umanità. La vittima che diventa carnefice; la frustrazione che annienta i buoni propositi; i sogni che si infrangono contro la cruda realtà; la voglia di rivalsa che non trova riscontro. Questa è l’anima con la quale ho vestito il romanzo e, se riuscirò a donare almeno una riflessione o un’emozione, sarò più che soddisfatta».
Prima di inoltrarci nei contenuti e nello stile è doveroso riportare che alla fine del romanzo lei crea un cameo per celebrare Trame di quartiere, una delle associazioni catanesi che più si muove per la bellezza dell’arte, del territorio e dei diritti, molto attiva culturalmente e socialmente a San Berillo, uno dei quartieri difficili della città. Ce ne parla?
«Certo e con immenso piacere. A fine libro ho citato l’associazione Trame di quartiere, che ho scoperto tramite una serie su YouTube e che mi ha permesso di conoscere retroscena che, altrimenti, sarebbero rimasti nascosti alla maggior parte delle persone. Credo che il loro contributo per Catania sia immenso e il loro impegno sottolinea quello che dicevo prima: fare finta di non vedere non risolve il problema. Problema che non risiede nelle persone del quartiere citato, ma nelle modalità malsane con le quali vengono gestite le situazioni. Creare una guerra tra poveri non può che incrementare odio e frustrazioni che, senza un vero cambio di registro, porteranno Catania in un baratro. Io ho quarantacinque anni e tante cose non posso ricordarle, ma chi è più grande di me mi racconta sempre di quanto la nostra città fosse bella, destinata davvero a diventare la “Milano del Sud”. Corso Sicilia sembrava un salotto, mi ripetono in continuazione, e oggi cosa resta di quel salotto? I commercianti si sentono abbandonati, gli abitanti si sentono abbandonati e, negli anni in cui lavoravo in quella zona, anche io mi sentivo così e avevo paura quando, uscita dal negozio, dovevo percorrere le vie del centro per recuperare la macchina. La sicurezza di una città dovrebbe essere la priorità, come dovrebbero esserlo la pulizia e il decoro. Catania, al momento, e a prescindere dall’angolazione dalla quale la si guarda, perde. I social, forse lo avrete notato, hanno dato vita a un nuovo fenomeno: i turisti che si scattano i selfie con cumuli di “munnizza” alle spalle e poi li condividono, in Italia e all’estero. Credetemi, tutte le volte mi si apre una ferita sul cuore e non posso che provare rabbia, pur sapendo che questo è un sentimento da evitare, perché non porta niente di buono. Sono fiera di essere siciliana e lo sarò per sempre, ma c’è un limite a quello che si può tollerare ed è stato ampiamente superato. Quindi, che arma ho per aiutare la mia città? Un laptop e le storie che aspettano di essere raccontate. Prostituzione, immigrazione, integrazione, degrado, sono argomenti che dobbiamo affrontare senza paura e con l’intento di trovare una soluzione che miri al bene di tutti».
Veniamo al romanzo propriamente detto. Ci racconta una storia molto interessante, con personaggi anche divertenti e altri angosciati; tra questi, l’ambiente sembrerebbe protagonista al di sopra delle parti, grazie a una descrizione realissima, seppur dura a tratti, di alcune strade di Catania, intinte di malessere: c’è un messaggio dietro o è un modo per un incazzarsi col mondo?
«Rispetto ai miei libri precedenti, in questo romanzo i personaggi sono quasi sempre angosciati ed è una scelta voluta. Non è possibile trovare spunti ironici dove non ci sono. Catania è davvero uno dei personaggi principali e il suo cuore pulsa di rabbia e dolore a causa delle troppe ferite inferte. Non amo mandare messaggi ma, forse, è proprio questo il senso del libro… un grido di aiuto che la città non ha più la forza di urlare. Incazzarsi con il mondo? No! Io mi incazzo solo con chi vive la propria vita nel totale menefreghismo, non rispettando né i beni comuni né le stesse persone. Mi incazzo quando noto che la parola rispetto, che tanto mi piace usare, sta diventando un termine destinato a scomparire anche dai vocabolari. Mi incazzo quando gli arroganti e i violenti hanno la meglio sulle persone perbene, costrette a subire inermi. Quindi, non mi incazzo con il mondo ma con chi lo sta distruggendo. Siamo arrivati al punto in cui è pericoloso anche obiettare, perché qualcuno potrebbe uscire dall’auto con il cric e spaccartelo in testa. Non puoi dire al vicino del piano di sopra che, se spazza il balcone e butta tutto sotto, ti sporca i panni stesi, perché magari si innervosisce e la prossima volta ti fa colare olio. Non puoi nemmeno lamentarti se rimani dieci minuti a fissare le strisce pedonali sperando che qualche anima pia si fermi perché, nell’immaginario collettivo, quelle sono decorazioni e non una segnaletica per fare attraversare i pedoni. Sia chiaro, non è un aspetto prettamente siciliano, e lo sappiamo bene, ma nella nostra meravigliosa isola pare che ogni problema sia destinato a prendere le proporzioni di un gigante. È tutto di più… è tutto troppo. La gentilezza è diventata un difetto e per sopravvivere in quella giungla le persone si devono incattivire, se vogliono sopravvivere. Quanto è triste tutto ciò?».
Chi sono i due protagonisti umani nella vita reale di Roberta Castelli?
«I protagonisti, come succede in tutti i romanzi, sono personaggi di pura invenzione ma, come accade quando scrivo, ho preso spunto da due persone che hanno attraversato davvero la mia vita. Manfredi ha un dono che, molti anni fa, possedeva anche una persona alla quale ho voluto bene e che viveva quegli eventi strani con angoscia, senza sapere come gestirli. Sono stata sempre attratta dai fenomeni inspiegabili e credo che sia una fascinazione comune, generata dall’alone di mistero che hanno le cose indefinibili. Ataviche domande vengono riformulate di generazione in generazione, ponendo ogni volta gli stessi interrogativi, in forme diverse ma con la medesima sostanza: esiste qualcosa oltre la vita? Con molta probabilità, non avremo mai una risposta, ma sono certa che le domande continueranno a sommarsi, per generarne altre. L’essere umano è stato sempre curioso e dentro di lui pulsa il fuoco della scoperta, che nel paranormale trova un pozzo infinito dal quale attingere. Manfredi non ha scelto di vivere certe esperienze, però gli capitano, e non gli resta che cercare di capire, anche se controvoglia. Per Mariolina, invece, ho preso spunto da una donna che vedevo quasi tutti i giorni in via Etnea, quando ancora vivevo e lavoravo lì. La chiamavano la pazza, dicevano che era diventata così quando il promesso sposo l’aveva lasciata sull’altare, mandando in frantumi la sua vita. Per le commesse dei negozi del centro la sua presenza era inquietante, perché la donna era imprevedibile e faceva paura. Capitava di vederla urlare con una bottiglia in mano; a volte, chiedeva di provare qualcosa e parlava nei camerini da sola, pronunciando frasi incomprensibili. Quanto può essere insostenibile la vita per ridurre una persona così? Non so se la storia del matrimonio sfumato fosse vera, ma di certo quella donna soffriva e pare assurdo che le sue esternazioni drammatiche, come spesso accade, venissero percepite con ilarità da chi rimaneva lì a osservarla. Che fine abbia fatto non lo so, ma una parte di lei vive in Mariolina».
Quanto c’è di lei nei personaggi che ha creato?
«In questo libro, niente. Quando ho iniziato a scrivere i primi romanzi, ho messo molto di me nei personaggi, come credo capiti a molti scrittori. Con il tempo, però, prende forma una sorta di maturità letteraria che ci rende in grado di fare un salto indietro, cancellando la necessità di raccontarsi per raccontare gli altri, e basta. Di me ci sono le emozioni, quelle che vivo e quelle che assorbo parlando con i miei amici catanesi. È come se tra me e la Sicilia ci fosse un cordone ombelicale attraverso il quale mi nutro, per dare voce a chi non sa più come chiedere aiuto. In molti pensano che andare via sia una scorciatoia facile per lasciarsi i problemi alle spalle, ma non è così. Come è stato, come è e come purtroppo sarà, moltissimi giovani lasciano la nostra isola ogni giorno e lo fanno con il cuore pesante e l’anima spezzata a metà, che non tornerà integra mai più. Andare via, dopo aver lottato tanto senza ottenere niente, richiede un coraggio estremo, perché nessun siciliano lascia la propria terra senza versare oceani di lacrime amare. Ma desiderare un futuro migliore non è peccato e trovo che il vero peccato lo commetta chi fa morire la Sicilia, costringendo tante anime belle a fare i bagagli per andare via. Non passa un solo giorno senza che io avverta nel mio cuore la mancanza della mia terra, perché le radici creano appartenenza e un siciliano, per quanto lontano possa andare, non smetterà mai di sentire quel forte richiamo. La sofferenza sta nella consapevolezza di non poterlo assecondare. Qui ci possiamo collegare all’indagine raccontata in questo noir, dove un senegalese che vive a Catania viene ucciso da una mano che, in pochi attimi, spazza via sogni e speranze. Chi parte in cerca di fortuna è spesso destinato al fallimento, perché non tutti sono in grado di raggiungere la meta e non sempre si può dire “ne è valsa la pena”».
Una domanda che in parte esula dal romanzo, ma solo per saperne di più, perché le sue descrizioni sono identiche a ciò che succedeva nel capoluogo etneo negli anni ’80 e sembrano ripetersi da decenni: Catania è sporca e rumorosa, seppur le immagini proposte sono a volte divertenti. C’è volontarietà di sdrammatizzare?
«Devo ammettere che questa volta, rispetto ai miei primi romanzi, non ho volutamente inserito ironia, perché il contesto, ne sono certa, richiede tutta la drammaticità possibile. Però, come spesso avviene in Sicilia, le contraddizioni sono così forti che generano in automatico una sorta di ilarità; potrebbe accompagnarsi bene al famoso detto: meglio ridere che piangere. C’è anche da dire che, tra le caratteristiche meravigliose dei siciliani, troviamo proprio la capacità di affrontare tutto con una tenacia immensa che comprende l’ironia e questo, a quanto pare, viene fuori persino in un romanzo prettamente noir. Mi capita spesso di parlare con amici catanesi che mi raccontano cose serie con un tono unico, che una risata te la strappa per forza, e tutte le volte mi trovo ad ammirarli, pensando che questo, forse, è l’unico modo intelligente per affrontare una realtà complicata senza farsi trascinare nello sconforto.»
Lei, in ogni ouverture di capitolo usa citazioni dello scrittore catalano Carlos Ruiz Zafón: perché?
«Ho inserito frasi di Carlos Ruiz Zafón per due motivi. In primis perché è il mio autore preferito, ci ha lasciati troppo presto e ho voluto omaggiarlo. Secondariamente perché, nel suo modo crudo di raccontare storie, riesce sempre a trovare un risvolto quasi ironico; ma, in fondo, la vita è davvero così. Ho scritto “riesce”, usando il presente di proposito, visto che lui continuerà a vivere per sempre nei suoi libri e le sue parole saranno lì ogni volta che sentiremo la necessità di leggerlo».
Pertanto, come chioserebbe questa lunga chiacchierata?
«Allacciandomi a ciò che le ho risposto prima, parlando del mio autore preferito. Le dicevo che scrivere al presente è stata una scelta volontaria, perché chi scrive ha questo mood: incidere pensieri immortali, partoriti da un involucro mortale. Ma l’essenza che riempie i nostri corpi, forse, non morirà mai. Grazie e buona vita a tutti!».
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