Blog Uomo-contro, apostolo e martire del dubbio e del dissenso, della conoscenza come ricerca infinita e della comunicazione come revoca in dubbio di certezze consolidate e verità di Palazzo. Cento anni dopo la sua nascita, l'8 gennaio 1921, i media tardivamente si accorgono della centralità di Leonardo Sciascia come scrittore e come intellettuale nella letteratura italiana ed europea, e nella battaglia delle idee, del secondo Novecento
Non credo siano inutili gli anniversari. Sono preziosi appuntamenti coi maestri, per noi che continuiamo a imparare; coi giganti, per noi così nani ma così devoti. E quest’anno, che è l’anno di Dante, ma anche di Dostoevskij, la ricorrenza dell’8 gennaio, centenario della nascita di Leonardo Sciascia, finalmente pare onorata unanimemente (ci volevano trent’anni! anni di silenzi e omissioni, perfino di polemiche maramaldesche): pare che i media si stiano tardivamente accorgendo della centralità di Sciascia come scrittore e come intellettuale nella letteratura italiana ed europea, e nella battaglia delle idee, del secondo Novecento; e perfino i giornali che allora lo denigrarono oggi lucrano sul romanzo sciasciano in vendita col quotidiano.
A ciascuno il suo Sciascia dunque, e così sia. A un intellettuale che ripeteva con Bernanos: «Preferisco perdere dei lettori, piuttosto che ingannarli», non so se questa proliferazione avrebbe fatto piacere, se il suo pudore, la sua diffidenza, la sua vocazione al confronto franco e severo non gli avrebbero fatto preferire quei silenzi al vacuo unanimismo delle celebrazioni. Delle quali, tuttavia, va preso atto in quanto occasioni, anche, di nuovi contributi critici.
Non sarà questo il mio caso: in poche righe non resta che ridurre un compiuto bilancio – culturale, letterario, civile ma per me anche umano – in una formula riassuntiva, e magari andare alla ricerca di un titolo, perentorio come uno slogan, che definisca il “mio” Sciascia; e allora mi viene in mente questo: “L’uomo in rivolta”. Lo rubo ad Albert Camus, al suo homme revolté, stupendo breviario di dissenso, di indipendenza e disobbedienza intellettuale: dove la rivolta, che al fervore del pensiero critico unisce un appassionato impulso esistenziale, è ben altro dalle rivoluzioni, che a un potere dispotico e iniquo ne sostituiscono un altro: è elementare sete di giustizia, è vitale esplosione libertaria, è sdegno e ribellione della Ragione.
L’intellettuale, dal suo atto di nascita che risale al J’accuse zoliano, è l’uomo-contro, è l’apostolo e il martire del dubbio e del dissenso, della conoscenza come ricerca infinita e della comunicazione come spiazzante alterazione della prospettiva, come revoca in dubbio di certezze consolidate e verità di Palazzo.
La sua dimora non va cercata, perciò, in una chiesa, in un partito o in un’accademia, ma sempre in partibus infidelium, in prossimità del rogo o dello scandalo, nel teatro d’una coscienza tormentata dal rovello dell’autocritica, costretta a mettersi costantemente in discussione, a «contraddirsi» per «contraddire» (come non ricordare l’adagio di Sciascia? e come non affiancargli «lo scandalo del contraddirmi, dell’essere con te e contro te» esibito da Pasolini al cospetto delle ceneri di Gramsci?); e a fuoruscire dalle proprie certezze (fossero pure le più laiche, le più liberali) per confrontarsi con l’altro da sé, come faceva Sciascia facendo dialogare, in ogni sua pagina, Montaigne con Pascal, o Voltaire con Bernanos.
Sciascia, Pasolini. E i loro scritti “corsari”, che ogni giorno c’imponevano di fare i conti con altre ragioni, di guardare da altre prospettive; di dilatare e talvolta stravolgere la nostra percezione, di smascherare alibi e slogan diffusi dal Potere e dai suoi cantori. Certo, quell’intellettuale è finito. L’hanno avuta vinta il tecnico e l’intrattenitore: uno addetto alla servile messa a punto dell’Ingranaggio, a inchinarsi al Libero Mercato delle “competenze”, a inoculare l’opprimente incultura del management, l’altro a dissimulare coi lazzi triviali e le smorfie ottuse dell’antica e italianissima commedia dell’arte l’insostenibile pesantezza dell’esserci.
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