Recensioni Al Castello Ursino di Catania Barbara Gallo ha portato in scena il monologo scritto e diretto da Salvatore Greco: un testo che convince in parte ma che la bravura di un'attrice di spessore ha sicuramente contribuito a elevarne il significato
Una riflessione sull’arte teatrale, una parentesi poetica che muove da un gesto, una doccia, ma che racchiude al suo interno anche il ribollire interiore di Salvatore Greco, che ne ha curato testo e regia. È questa l’essenza di “Semplice”, il monologo con il quale un’emozionata Barbara Gallo ha trasposto i pensieri del drammaturgo facendoli diventare parola loquace e movimento composto. Di fronte a una scacchiera di 70 posti, sul palcoscenico rivestito d’arancione del Castello Ursino, Barbara Gallo si fa protagonista tout court nei ruoli di regista e interprete, in un percorso frastagliato di sensazioni che espolodono incontrollate.
Un ritorno alle scene, all’interno della rassegna Catania Summer Fest, che non si discosta la condizione in cui si trova il settore dello spettacolo dal vivo da mesi e che viene evidenziato agli spettatori con un annuncio-protesta. Il subbuglio scatenato dal Covid-19 ha infatti portato alla luce la necessità di una maggiore stabilità del settore, di una nuova organizzazione del lavoro e di un’abolizione dei “contratti che – si dice – hanno reso precario il sistema”. E se la prerogativa per gli addetti è non tornare indietro, da spettatori ci si chiede se sia effettivamente questo il modo di sensibilizzare il pubblico, in una serata di fine estate offerta dal Comune.
Avvolto dalle mura medievali, sulla pedana c’è solo uno stander con alcune grucce su cui sono disposti degli abiti, rigorosamente bianchi, e due scatole contenenti coriandoli, campanelli e una coroncina, come quella che indossavamo da bambine per giocare alle principesse. Così parlando di teatro, di provini e di ruoli, il testo si spalanca verso un universo smisurato di quesiti, speculazioni dilaganti sul mondo dell’amore, della verità e della vocazione che in alcuni passaggi lo rendono più adatto alla lettura che alla rappresentazione. Un flusso di coscienza a scopo catartico essenzialmente per il suo autore, più che per la platea.
Non si può non notare, a questo proposito, la lunga sequela di attrici con i relativi epiteti: Rita la giudice dalla s marcata, Debora l’ipocondriaca, Laura la paranoica, Samanta la dominante dominatrice e ancora Corinne la feticista… quasi un catalogo psichiatrico, più che un elenco di cliché. “Io non sono affetto semplice”, chiosa la Gallo sul finale, ricordando a ciascun essere umano una complessità insita nella sua stessa natura, che sovrappone più dimensioni di ascolto in un’opera che nel complesso rimane frammentata.
La necessità di rivolgersi costantemente al pubblico, disorientandolo all’inizio e lasciandolo poi sospeso nel rispondere alle reiterate domande, si scioglie alla fine nella necessità di rompere definitivamente la quarta parete e di farlo diventare, con tanto di mascherina sul volto, parte integrante della pièce. Un testo che convince in parte, anche se la scelta di un’attrice brava e di spessore come Barbara Gallo ha sicuramente contribuito a elevarne il significato. Una direzione misurata, quasi impercettibile, che ha puntato tutto su una recitazione effettata e sulla modulazione della voce in cadenze e sonorità che hanno monopolizzato lo spettacolo. L’unico momento musicale, un iconico Clair de Lune di Debussy, è arrivato solo sul finale, quando l’attrice con indosso una tunica dalle maniche ampie, quasi angelica è scesa tra il pubblico per portare dentro al quadro alcuni spettatori, liberandoli simbolicamente dal peso delle loro esistenze.
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