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“Mafia e politica”, il best seller di Michele Pantaleone, scrittore antimafia oggi dimenticato

Libri e Fumetti Con la prefazione di Carlo Levi, nel 1962 Einaudi pubblicava il libro più conosciuto e rappresentativo dello scrittore e giornalista di Villalba. Una vita la sua - fra inchieste giornalistiche, libri e l'impegno politico - spesa a denunciare, facendo nomi e cognomi, lo strapotere mafioso nella Sicilia rurale dal secondo dopoguerra in poi. Oggi di Pantaleone, scomparso vent'anni fa, non parla più nessuno. Scriveva Levi: "Un uomo che ha sofferto il problema della mafia in ogni istante della propria vita”

Compie sessant’anni il best seller di Michele Pantaleone, “Mafia e politica” con prefazione di Carlo Levi. L’autore di “Cristo s’è fermato a Eboli”, scrive: “Michele Pantaleone non è dunque uno studioso che affronta il problema della mafia come oggetto di studio, di lavoro, o come uno dei tanti momenti di un’azione politica, ma un uomo per cui questa condizione umana è vissuta come l’atmosfera stessa della propria esistenza, e sofferta in ogni istante della propria vita”.

Pubblicato da Giulio Einaudi, “Mafia e politica” è un libro crudo, che fa scalpore e provoca scandalo. Nisseno di Villalba, Michele Pantaleone, formatosi al giornale comunista L’Ora, descrive la mafia con nomi e cognomi, ne ricostruisce la storia sin dai suoi albori e accende un faro nel passaggio da mafia agreste al sacco di Palermo, quando la mafia fa il salto e investe nell’edilizia che tutto cementifica. Pantaleone ricostruisce gli sviluppi e gli intrecci nel dopoguerra, stigmatizza le connivenze tra i boss mafiosi che in cambio di protezione e impunità, assicurano carrettate di voti ai politici di riferimento. Il libro fa il botto, così come le altre opere di Pantaleone, uno scrittore dai grandi numeri e dal grande nome, oggi colpevolmente dimenticato nella sua stessa Sicilia, terra dove è nato e vissuto fino alla morte, avvenuta vent’anni fa a Palermo, il 12 febbraio 2002, e dove ripeteva: «Nulla è mafia se tutto diventa mafia».

Ma se è vero che il silenzio della verità urla più forte di mille menzogne, ancora oggi in certa Sicilia viene ripetuto come un mantra il vecchio detto: A megghiu parola è chiddra ca nun si dici. E chi vuole intendere intenda “l’amichevole” esortazione alla prudenza nelle parole che vengono adoperate quando si parla, o peggio, si scrive, di qualcuno ntisu ovvero noto e influente. Un’intonazione appena più marcata fa risaltare note a lutto in quel detto apparentemente innocuo. Gli esperti di comunicazione conoscono bene il concetto di obliquità semantica, vale a dire l’uso di termini obliqui che si attua attraverso l’uso di impliciti, forme metaforiche e appelli a locuzioni allusive. Dire una cosa, insomma, per farne intendere un’altra.

E chissà quante volte quel consiglio venne detto a Michele Pantaleone, nato e cresciuto nella sperduta Villalba, tra immensi latifondi e miniere di zolfo, dove a farla da padrone erano i gabelloti. E tra loro il capomafia: don Calò Vizzini.

Anni 40, Pantaleone contro il “nenti sacciu, nenti vitti…”

Lo scrittore Michele Pantaleone

Anni Quaranta, la mafia dei latifondi comanda e detta legge, ma nessuno in quegli anni ne parla. Nessuno tranne questo testardo e coraggioso scrittore nato in una famiglia benestante, che diventerà amico e collaboratore di grandissimi nomi della letteratura italiana (citiamo per tutti Carlo Levi, autore dell’indimenticabile “Cristo s’è fermato a Eboli”), scriverà anche sul mitico giornale “L’Ora” di Palermo e diventerà anche parlamentare. Al suo attivo quattordici libri, undici opuscoli, oltre cinquemila articoli pubblicati su La Stampa, L’Avanti, Corriere della Sera, La Voce Comunista, La Voce Socialista, L’Astrolabio, L’Europeo, L’Espresso, I Siciliani, L’Obiettivo; e quasi un migliaio di conferenze di cui la maggior parte tenute nelle scuole. “Nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario” ci ricorda George Orwell e rivoluzionaria fu la portata dell’impegno di Michele Pantaleone che narrò in origine del suo microuniverso/cosmo, paradigma di uno status che a molti faceva comodo non vedere e fece nomi e cognomi. Mafia, politica, affari. Ieri come oggi.

I libri di Michele Pantaleone sono stati tradotti in ventotto lingue, compresa una versione russa in braille del suo best-seller, “Il sasso in bocca” da poco ristampato da Zolfo Editore (con una esaustiva prefazione di Gaetano Savatteri), e da cui venne tratto l’omonimo film girato nelle aspre terre di quella Sicilia arcaica, dominata da sterminati campi di frumento e granaglie. Campi assolati e omertà diffusa.

“Il sasso in bocca” il libro

“Il sasso in bocca” il film

Michele Pantaleone, nato a Villalba il 30 novembre del 1911, da Gennaro, avvocato, e da Rosa Scarlata, mancò nel 2002 nella sua casa di Palermo, dove morì amareggiato e in solitudine, confortato soltanto dalle visite dei suoi congiunti e ammiratori, e tra loro Gino Pantaleone (omonimo, non parente) che ha dato alle stampe due monografie sulle battaglie del battagliero scrittore troppo mascariato dalle maldicenze“Servi disobbedienti” e “Il gigante controvento” – e sepolto sotto quintali di carte bollate.

Ma nessuno riuscì a piegarne lo spirito indomito.

Palermo, 1995. Gino Pantaleone e suo figlio Gianluca, in visita allo scrittore Michele Pantaleone.

Fin da ragazzino, negli anni Venti, Michele Pantaleone cominciò la sua testarda e solitaria rivoluzione, denunciando ai carabinieri l’assassinio d’un pastore picciriddo, Jachino Noce, testimone oculare d’un omicidio di mafia, e scrivendo poi, da adulto, del grande inganno sociale che continuava a millantare una verità che non trovava rispondenza nei fatti, ovvero che la mafia non esistesse. Ma in Sicilia, i siciliani sapevano bene come andavano le cose, l’inganno quindi si fece ancora più sottile, ovvero che quella mafia fosse dispensatrice di giustizia, una sorta di mafia benevola, che aggiustava i torti in favore dei deboli contro i prepotenti.

Minchiate, ovviamente.

“Il sasso in bocca” riedito da Zolfo

Quando la mafia diventa spettacolarizzazione del potere

Calogero Vizzini noto come don Calò

Ma non per tutti, al punto che un noto procuratore della Repubblica, di cui omettiamo volutamente il nome, si sarebbe sentito in dovere di attribuire a don Calò Vizzini un epitaffio che ancora oggi si ricorda con imbarazzo: “Si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura; è un’inesattezza. La mafia rispetta la magistratura e la giustizia. Nella persecuzione ai banditi e ai fuorilegge la mafia ha affiancato le forze dell’ordine. Possa l’opera del successore di don Calogero Vizzini essere indirizzata sulla via del rispetto della legge”.

E la storia, al di là del mito e delle rappresentazione cinematografiche, al di là di certi eccessi fantasiosi o partigiani, focalizzandoci su un unicum, ci consegna la cartina tornasole di tale stato di fatto: i funerali. In pompa magna e con grandissima partecipazione di popolo quelli del boss mafioso morto nel suo letto per cause naturali a settantasette anni, il 10 luglio 1954. Scarsamente partecipato il 13 febbraio 2002 quello dello scrittore novantenne che tanto aveva osato, e che venne seppellito negli ultimi decenni da una caterva di querele e di denunce, e condannato soltanto una volta, dopo morto, per un’inesattezza documentale.

I funerali di don Calò

Non è roba da poco: i funerali di don Calò nel 1954 imprimono un salto di qualità nell’autorappresentazione mafiosa che prima di allora non poteva contare su una tradizione già consolidata, diventa spettacolarizzazione, sfacciata esibizione di potere. La dipartita dello storico capomafia diventa occasione per l’autocelebrazione di un potere che conquista nuovi spazi, legittimato da una narrazione dell’autorità pubblica distratta o compiacente.

Sempre avversata da Michele Pantaleone, l’indiscussa autorità esercitata da Vizzini nella sua Villalba – che a seguito dello sbarco degli Alleati di cui fu uno dei sodali e venne ricambiato con la nomina a sindaco del suo paese e i suoi uomini furono perfino autorizzati a portare le armi dal comando degli alleati – unita al peso di tale rappresentazione così pervasiva, contribuì alla costruzione di un rito funerario particolarmente significativo destinato a incidere ulteriormente nell’immaginario pubblico.

A proposito di quella cerimonia, scrive la sociologa Alessandra Dino, esperta di criminalità organizzata: “Nel corteo che si snoda dalla casa di Vizzini per giungere alla chiesa madre, quattro bambini precedono il lungo serpentone, portando due bracieri colmi di carbone ardente; segue il feretro, portato in spalla, e appresso i gonfaloni delle istituzioni e delle confraternite, e poi ancora dietro più di duecento figliocci battezzati dal defunto. Il paese è muto e sfila in piazza, i negozi sono chiusi, gli uffici vuoti. Giuseppe Genco Russo accompagna la testa del corteo e tiene in mano uno dei due cordoni che pendono dal feretro, su cui è collocato un cuscino di fiori bianchi a forma di croce. Un secondo cordone viene tenuto da don Calogero Ferro, meglio conosciuto come U patri granni, capomafia di Canicattì”.

I funerali di don Calò Vizzini

La cornice funeraria diventa così occasione per assolvere più funzioni: consolidare il legame con la comunità locale di riferimento, veicolare messaggi nello spazio pubblico e, al contempo, legittimare le figure che si candidano a raccogliere l’eredità del defunto. In questo senso i funerali di Vizzini avrebbero rappresentato un precedente decisivo nella simbologia mafiosa.

Di converso, mezzo secolo più tardi, nella piccola chiesa dell’Immacolata Concezione (la chiesa madre era chiusa per restauro), si contavano molti posti vuoti quel 13 febbraio 2002 ai funerale di Michele Pantaleone. Solo un centinaio i presenti, compresi i tanti venuti da fuori. Nessun lutto cittadino per lui. Neanche il mondo della scuola partecipò ai funerali e ancora oggi neppure una strada gli è stata intitolata nel suo paese natio. Ad accogliere il feretro, giunto da Palermo, c’erano i pochi congiunti, il sindaco con la fascia al petto, il presidente del Consiglio comunale, alcuni consiglieri e un assessore. C’erano il maresciallo dei carabinieri della locale Stazione con due carabinieri, alcuni rappresentanti delle forze di Polizia, giornalisti e qualche curioso. Per Michele Pantaleone, al termine della funzione religiosa, celebrata da don Francesco Lo Manto (nominato arcivescovo metropolita di Siracusa pochi mesi addietro), che ne ricordò la statura di uomo di cultura nell’omelia, un mesto corteo alle porte del paese, con la banda che ritmò il corteo con colpi di tamburo. Poi per lo scrittore dimenticato, la tumulazione nella tomba di famiglia dove ancora oggi si legge nel marmo: “Dedicò tutta la vita alla lotta alla mafia e al riscatto morale della Sicilia”. I saluti per il cordoglio si tennero  nella casa della sorella Maria, ubicata in piazza Marconi.

Pantaleone, il coraggio della parola

Un’inchiesta di Pantaleone su L’Ora

Calò così il sipario su un uomo coraggioso e scrittore prolifico. Un uomo che credeva nel riscatto degli umili verso i potenti, ad ogni costo, anche a costo di denunciare tutto e tutti.  Nel 1944 cominciò le sue corrispondenze su “La voce socialista”. Il direttore Franco Grasso, scrisse: “Il nostro corrispondente da Villalba pare non abbia molti peli sulla lingua. E pare che ci fornirà altre molte importanti notizie sempreché‚ non gli capiti qualcosa: un colpo di vento per esempio, o qualche schioppettata da dietro il muro”.

E davvero il pericolo che Pantaleone cadesse sotto i colpi dei mafiosi c’era, come ad esempio avvenne in quella storica sparatoria del 20 settembre 1944, quando Girolamo Li Causi che parlava arringando i contadini a ribellarsi alla mafia, fu ferito dai colpi sparati sul palco dagli uomini di don Calò. “Anche Li Causi fu ferito ad un ginocchio – scrisse Carlo Levi -.  Michele Pantaleone se lo caricò sulle spalle mentre le pallottole (quindici fori furono trovati sul muro dietro le loro spalle), levavano polvere di calcinacci dall’intonaco e lo portò per quei pochi passi, fin dietro il muro della casa del Banco di Sicilia. Pantaleone allora dall’angolo, calò la sua pistola e sparò in aria cinque colpi”.

Girolamo Li Causi durante un comizio

Dopo la pistola, lo scrittore usò la penna. Migliaia i suoi articoli contro la mafia che furono pubblicati, tanti i libri e tanti i riconoscimenti letterari (tra cui il premio Vitaliano Brancati la cui giuria era presieduta da Pier Paolo Pasolini, e il premio Ignazio Silone).

E proprio nella centralissima piazza Vittorio Emanuele di Villalba, dove avvenne la storica sparatoria del 1944, Michele Pantaleone possedeva una casa. Lì e nella sua tenuta in contrada Pietrosa, tra il 1983 e il 1984, scrisse uno dei suoi ultimi libri: “A cavallo della tigre”. Si legge testuale: “In quarant’anni di attività politica, di pubblicista e di scrittore me ne sono capitate di tutti i colori. Dal 1944, data del mio primo articolo contro la mafia, ho subito 32 querele per diffamazione a mezzo stampa, 3 denunzie per occupazione di terre, una per occupazione di miniera; sono stato imputato e processato per calunnia, indiziato di truffa allo Stato; ho subito tre attentati, due a colpi di pistola, uno con un camion lanciatomi addosso in una delle strade principiali di Palermo. Sono stato imputato avanti i tribunali di Torino, Milano, Roma, Palermo e Caltanissetta. Per le su elencate querele sono stato imputato assieme a due direttori del giornale “L’Ora”, con il direttore della “Voce Comunista”, con il direttore e un giornalista de “L’Astrolabio”, con il direttore e due giornalisti de “L’Europeo”, con il direttore e un giornalista de “L’Espresso”, con l’editore Giulio Einaudi. Sono stato coimputato con gli onorevoli Girolamo Li Causi e Girolamo Scaturro, con il segretario della sezione comunista di Mussomeli e con quello della federazione del sindacato minatori di Caltanissetta. Per mia fortuna, fino ad oggi, sono incensurato“.

Michele Pantaleone

Dalle sue stesse parole emerge l’amarezza ma anche l’orgoglio di essere stato un siciliano perbene che ha combattuto innumerevoli battaglie contro lo strapotere mafioso. Michele Pantaleone fu eletto deputato della Prima legislatura, nella lista del Blocco del popolo, collegio di Caltanissetta, con 8.322 voti di preferenza e, in seguito, fu eletto nella lista del Partito comunista italiano, collegio di Caltanissetta, con 11.116 voti di preferenza su 42.285 di lista (percentuale 26,2%). Fu anche membro del Consiglio Generale e della Presidenza del Comitato Regionale della Lega delle Cooperative e vice Presidente della Sesta Commissione legislativa permanente.

Tra i suoi libri ricordiamo il già citato “Il sasso in bocca”, “Mafia e politica”, “L’industria del potere”, “Mafia e antimafia”, “Omertà di Stato”, “Antimafia, occasione mancata”. Uno scrittore appassionato e sanguigno, uno scrittore da riscoprire leggendo le sue opere.



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