Libri e Fumetti Nel nuovo romanzo "L'orizzonte della notte" torna, per un settimo capitolo della sua biografia romanzata, l'avvocato Guido Guerrieri, personaggio principe per lo scrittore ed ex magistrato. Guerrieri è chiamato a difendere Elvira, che ha ucciso a colpi di pistola l’ex compagno della sorella gemella. Un caso complesso che presenta non solo aspetti controversi sul piano giuridico ma anche sul piano etico
Un viaggio cultural-letterario intriso di analisi della giustizia e del mondo interiore dell’avvocato Guido Guerrieri, il protagonista principe dei romanzi di Gianrico Carofiglio. Il successo nazionale e internazionale dello scrittore pugliese-siculo (madre di origine netina) ha avuto il suo incipit con i romanzi incentrati su Guerrieri e la sua Bari, un fenomeno letterario che è stato consacrato sul piano della critica da prestigiosi media europei ed anglosassoni. Negli Stati Uniti i più autorevoli media culturali hanno evidenziato più volte l’originalità della narrativa di Carofiglio, dei suoi thriller legali che sono anche filosofici. Il nuovo romanzo “L’orizzonte della notte”, edito da Einaudi, è simbolico della pluralità di dimensioni della scrittura narrativa di Carofiglio: filosofica, antropologica, giuridica ed esistenziale. Le sue invenzioni letterarie sviluppate con dinamismo narrativo, efficacia linguistica, citazioni colte sempre inserite in un contesto chiaro e divulgativo, contribuiscono a rendere i suoi romanzi avvincenti e gradevoli nella lettura. Inoltre vi è da dire che sulla dimensione filosofica della sua scrittura non incide solo la tradizione della filosofia del linguaggio, quella analitica anglosassone, ma anche la grande tradizione letteraria siciliana. Una tradizione quella siciliana che è impregnata di riflessione filosofica, da Verga a Pirandello, da Brancati a Sciascia. Vi è da aggiungere che l’antica tradizione filosofica isolana ha avuto in Gorgia da Lentini un anticipatore non solo del nichilismo ma anche della riflessione teorica e pragmatica sul linguaggio.
Il nuovo romanzo L’orizzonte della notte con il ritorno dell’avvocato Guerrieri è incentrato sul caso di Elvira, che ha ucciso a colpi di pistola l’ex compagno della sorella gemella. L’avvocato Guerrieri è chiamato a difendere la donna. Si rende subito conto della complessità del caso, che presenta non solo aspetti controversi sul piano giuridico ma anche sul piano etico. La Corte è riunita in Camera di Consiglio. In attesa della sentenza Guerrieri medita sul tempo trascorso, sul senso della sua professione, sull’idea stessa di giustizia.
E fa riferimento ad un libro che aveva letto in precedenza: “Anni fa ho letto l’autobiografia di un famoso avvocato americano. Il libro era cosí cosí, in molti punti anche noioso, ma raccontava un aneddoto che mi è rimasto impresso. L’autore, appena laureato a Harvard, viene assunto da un prestigioso studio legale. Dopo mesi di pratica trascorsi a preparare fascicoli per altri, arriva il grande giorno: quello del primo processo che dovrà trattare personalmente insieme al titolare dello studio, interrogando i testimoni e discutendo la causa di fronte a una giuria. Il suo capo gli dà appuntamento davanti al palazzo di giustizia con mezz’ora d’anticipo. Probabilmente, immagina lui, per fare un ultimo punto sulla strategia e sulle questioni da affrontare. Quando si incontrano, però, quello si limita a dirgli di seguirlo. Percorrono i corridoi deserti, che a breve – con l’inizio delle udienze – si trasformeranno in alveari impazziti, ed entrano nell’aula. L’ambiente è uno di quelli che abbiamo visto tante volte nei film: architettura neoclassica, maestosa ed enfatica, che pare voler esaltare la solennità dei riti che vi si celebrano. Il vecchio avvocato dice al giovane di guardarsi attorno, di pensare a dove si trova, a quanto sta per accadere in quel luogo. Dopo qualche minuto, gli domanda cosa stia provando. “Reverenza”, risponde il giovane. Bene, cerca di imprimere nella mente questa sensazione. Se un giorno ti capiterà di entrare in un’aula di giustizia senza percepirne nemmeno piú un frammento, allora sarà arrivata l’ora di smettere”.
Ed ancora: “Il protagonista della storia sosteneva che quella reverenza non lo avesse mai abbandonato, perciò aveva continuato a fare l’avvocato con entusiasmo fino alla vecchiaia. È una bella storia, romantica, molto americana. Forse anche vera. Il mio ingresso nella professione è stato assai meno romantico. Niente aule neoclassiche silenziose ed emozionanti. La mia prima udienza fu in un’affollata pretura di provincia: un cumulo di fascicoli e faldoni affastellati davanti al giudice, brusio, odore acre di umanità, claustrofobia. Tutto fuorché sacralità della giustizia. Però posso testimoniare anch’io che le aule solitarie, in certi momenti di attesa e sospensione del tempo, pure in assenza di marmi e stucchi, hanno una potente capacità di evocare inquietudine, stupore, intuizioni. I giudici togati e popolari erano usciti a uno a uno attraverso la porta della camera di consiglio. Era uscito il sostituto procuratore, frettolosamente; erano usciti gli agenti di polizia penitenziaria con la mia cliente, il pubblico, i giornalisti e i carabinieri. Per ultimo era uscito il cancelliere dottor D’Eusebio, dopo avermi detto che mi avrebbe chiamato appena la corte fosse stata in procinto di rientrare per la lettura della sentenza. Immagino dipenda da una stratificazione dei ricordi dovuta alle tante volte che ho visto questa scena, ma sembra sempre vi sia una liturgia non dichiarata, una regola processuale non scritta, quasi una coreografia nel modo in cui si svuota l’aula della corte d’assise quando i giudici si ritirano in camera di consiglio. Io avevo rimesso in borsa le mie carte con gli atti e lo schema dell’arringa, avevo riposto la toga nello zaino e di regola sarei dovuto andare via. Invece rimasi. Non era una cosa che facevo abitualmente. Anzi, a pensarci bene, non l’avevo fatto mai. Vanno via tutti e di regola vuoi andartene anche tu, toglierti da quel posto che diventa d’un tratto… diverso. Non solo perché prima era affollato e dopo è deserto. Non solo perché le sedie che erano occupate adesso sono vuote. È proprio diverso, la stessa percezione sensoriale di quel luogo cambia”. Porsi nell’ottica degli altri: “ Mi alzai, feci il giro dell’aula, mi sedetti al posto di uno dei giudici popolari e, dopo qualche attimo di esitazione, al posto del presidente. Per vedere l’effetto che fa, tanto per citare una vecchia canzone. Non faceva alcun effetto particolare. Cosí entrai nella gabbia – che parola oscena, se riferita a un posto dove si rinchiudono delle persone, assai peggiore di cella o prigione – e mi sedetti su uno dei banchi destinati agli imputati detenuti. Guardai fuori, attraverso le finestre sulla parete opposta. Guardai il fuori attraverso le sbarre, e pensai a come tutto era cominciato”.
L’incipit del caso. L’amico Ottavio, proprietario dell’originale libreria notturna molto apprezzata da Guerrieri lo chiama: “Squillò il cellulare e comparve sul display il nome di Ottavio, il mio amico libraio. Una cosa inattesa e inusuale. A mia memoria, Ottavio non mi aveva mai cercato di giorno e solo rare volte, negli anni, di sera. Lui ha una libreria – l’Osteria del Caffellatte – parecchio speciale, non credo ne esistano molte di simili nel mondo. Se non altro perché apre alle ventidue e chiude alle sei del mattino. La creazione di questa libreria è stato il personalissimo modo di Ottavio di affrontare il problema della sua insonnia. Qualche volta, di rado, mi aveva telefonato, sempre facendosi precedere da un messaggio, all’apertura (vale a dire, appunto, subito dopo le ventidue) per informarmi dell’arrivo di qualche volume che avevo ordinato: mi ostino con le librerie fisiche ed evito le piattaforme online, ne faccio una questione ideologica. Un po’ rétro e non troppo originale, mi rendo conto. Lasciai squillare tre o quattro volte. Pensai che forse la chiamata gli era partita per errore. Poi risposi. – Ottavio? – Ciao Guido, spero di non disturbarti, ma è un’emergenza. – Cosa è successo? – Lo so che ti faccio una richiesta un po’ strana, ma potresti passare dall’Osteria? – Adesso? – Se possibile, sí. – Ma la libreria è aperta? – No, ma io ci sono. Aveva un tono concitato, inconsueto per lui. Non ci frequentavamo, al di fuori dei nostri incontri notturni in libreria, non ricordavo di averlo incrociato di giorno. Per quanto lo conoscevo Ottavio era un tipo molto tranquillo, dava l’impressione di non perdere mai la calma. E non per effetto di una pratica di controllo: era il suo modo naturale di essere. Quieto. Perciò quel tono, quella concitazione, mi preoccuparono un po’. – Puoi anticiparmi qualcosa? – Se non ti dispiace, preferirei parlarne a voce”.
Il caso enigmatico di Elvira
Si entra nel cuore del romanzo: “Pensai che questa Elvira avesse fatto un incidente stradale e che qualcuno fosse morto. – Non so come dirlo, ma insomma: Elvira ha ucciso un uomo, – concluse Ottavio. Ebbi un piccolo fremito di stupido compiacimento per le mie capacità di intuizione. Ci avevo azzeccato, Elvira aveva investito qualcuno ed era finita nel modo peggiore. – Un incidente stradale, – replicai senza nessuna intonazione di domanda. – No. – No? Ma che è successo, allora? – percepii nella mia voce una nota di impazienza. – Una cosa cosí enorme… non riesco a pronunciare le parole. Lo guardai stupito. Che intendeva per enorme? – Ha ucciso un tizio. – Ucciso? – L’ex compagno della sorella, che è morta suicida qualche settimana fa. Era andata da lui. Hanno avuto una discussione che è degenerata e lei… lo ha ammazzato. Non sapevo che dire, e alla fine mi venne solo una domanda da avvocato. – L’hanno arrestata? – No. È qui in libreria, – disse accennando col capo alla serranda semiaperta. – Mi ha chiesto aiuto, è sotto choc, e l’unica cosa che sono riuscito a pensare è stato chiamare te. Fui sul punto di fargli altre domande, poi mi resi conto che era inutile”.
Elvira Castell. “Doveva avere piú o meno quarant’anni. Statura media, jeans e maglione, nessun segno distintivo a parte, forse, una mascella pronunciata che dava una sfumatura maschile e aggressiva al suo volto. A me non sembrava in stato di choc. Ci sedemmo nel salottino. Ottavio chiese se volessimo un caffè, lei disse no, grazie; io stavo per rispondere allo stesso modo, poi invece accettai. Non so per quale motivo: non avevo nessuna voglia di un caffè. – Cosa è successo? – chiesi. Lei prese un respiro profondo, come per darsi forza. Estrasse da una tasca il telefono, digitò qualcosa e me lo porse. Era il sito di un quotidiano online locale. Un tale Giovanni Petacci era stato assassinato nel suo appartamento, gli avevano sparato. Sul caso indagava la squadra mobile e al momento non era chiara la possibile causale del delitto. Petacci, la cui compagna si era di recente suicidata, non sembrava in rapporti con la criminalità organizzata. Gli inquirenti ipotizzavano che del delitto fosse responsabile una persona conosciuta alla vittima, perché nell’appartamento non vi erano segni di effrazione. La notizia era molto asciutta, del resto il fatto era accaduto poche ore prima. Io mi aggiravo nella nebbia della mia distrazione per i corridoi del palazzo di giustizia, la vita tutto intorno scorreva regolare e la donna che adesso era seduta davanti a me stava uccidendo un altro essere umano. Prima di cominciare dissi a Ottavio di allontanarsi e di non ascoltare il racconto di Castell. Magari era una preoccupazione da film americano, ma io avevo la tutela del segreto professionale, lui no”.
Cosa accadrà? Come evolverà il caso? Non resta che leggere il nuovo romanzo di Gianrico Carofiglio…
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